Guardando al duello francese tra Ségolène e Sarkozy, con il ruolo determinante del “fenomeno” Bayrou, Piero Di Siena ha giustamente sottolineato l’esigenza di un grande compromesso politico, a scala europea, tra una sinistra non deprivata della propria identità e autonomia politica, e un centro democratico disponibile a distinguersi da una destra forte e aggressiva, e attraversata da una ideologia dai tratti francamente reazionari.
E’ vero che una discussione seria e approfondita su questo tema non si è ancora pienamente sviluppata in Italia, e questa è forse una delle ragioni della vita difficile e stentata della maggioranza che sostiene il governo Prodi. A un fatto storico di prima grandezza – per la prima volta dopo la sconfitta del fascismo e i primi governi di unità nazionale la sinistra italiana è unita al governo del paese con un programma comune – non sembra seguire in modo adeguato quella “grande politica” che dovrebbe sostenere l’impresa e consolidarla nel tempo.
E però è questo, credo anch’io, il tema di fondo che dovrebbe orientare le scelte in un momento in cui la politica – consapevole fino a un certo punto della propria crisi di senso – cerca di darsi nuove forme e cerca ancora confusamente nuove idee e nuovi contenuti. Da un lato il progetto del Partito democratico. Dall’altro quello di un nuovo soggetto politico unitario delle sinistre che nel Pd non si riconoscono.
Nel suo intervento Di Siena evoca l’idea che questo compromesso politico trovi il suo ancoraggio sociale in un nuovo compromesso tra lavoro e capitale. Tra una sinistra in grado di ritrovare la capacità di rappresentare il mondo del lavoro, e gli interpreti di un capitalismo non inconsapevole dei limiti del modello di sviluppo che ha vinto nel mondo ma che apre contraddizioni drammatiche.
Credo però che il discorso fatichi a svilupparsi proprio perché concetti come lavoro e capitale – che certamente mantengono un determinante significato sociale e politico – non possono essere considerati come un dato, ma esigono una ridefinizione. La sinistra che si dice “radicale” meriterebbe questo aggettivo se fosse capace di formulare definizioni che andassero alla radice, appunto, delle nuove fenomenologie del lavoro e del capitale nel mondo di oggi.
Abbiamo appena celebrato un primo maggio in cui si è ricominciato a vedere il “negativo” del lavoro: la violenza che uccide, lo sfruttamento e il precariato. Ma la sinistra è stata forte quando ha saputo riconoscere – al di là dell’ideologia sulla “centralità” e la missione storica emancipatrice della classe operaia – il valore positivo del lavoro anche per come era definito dai desideri e dalla dignità dei lavoratori.
Mi colpisce, per fare un solo esempio, la rimozione quasi assoluta del fatto che il cambiamento forse più grande conosciuto in questi decenni nel mercato del lavoro è l’ingresso in massa delle donne. Una lunga e interessante intervista di Fausto Bertinotti sul settimanale “Left”, quasi interamente dedicata al lavoro, non ne fa cenno. Spesso si vede il negativo di una presenza femminile ancora insufficiente rispetto ai livelli europei. Ed è certamente giusto. Ma intanto l’ingresso delle donne nel lavoro che cosa ha cambiato?
Lia Cigarini e Marisa Forcina, in due saggi pubblicati su “Critica marxista” e leggibili anche nel sito www.donnealtri,it ipotizzano che una nuova politica possa ripartire proprio dal lavoro, spazio pubblico per eccellenza, così largamente femminilizzato, dove la tradizionale dicotomia tra produzione e riproduzione è sovvertita. Non è un tema da approfondire?
Ma anche il capitale è una cosa assai diversa dalle rappresentazioni tradizionali della sinistra. Bisogna lasciare al simpatico comico Grillo la rappresentanza degli interessi dell’azionariato diffuso, il tema della democrazia economica, l’analisi del nuovo ruolo della proprietà e del management, di un rapporto tra pubblico e privato che è tutto da reinventare? Contro la facile ( e molto spesso interessata) tesi di chi predica la privatizzazione di tutto, ci accontentiamo dell’altrettanto facile e speculare tesi di chi pensa che una gestione pubblica diretta, dello stato o delle autonomie locali, sia per definizione vantaggiosa per utenti e lavoratori?