Il mondo è scosso da una crisi economica senza precedenti, mezza africa musulmana è sconvolta da rivolte e guerre civili del tutto impreviste, il web ha rivoluzionato il modo di comunicare e di fare politica in tutto il pianeta, i giovani “indignati” contestano la finanza globale e lo strapotere di Wall Street, una ragazza di 16 anni vince X Factor…
Ma gran parte della politica italiana discute sull’eredità di Luigi Einaudi, sul ruolo della classe operaia negli anni ’50, sulle scelte del Pci nel 1977. Mentre la parte più vivace del mondo cattolico si è da poco ritrovata a Todi a ragionare sul ruolo della cara vecchia Dc. Nessun dubbio sull’utilità del riflettere sulla propria storia, dopo l’esito imbarazzante della cosiddetta “seconda Repubblica”, ma davvero si troveranno così le risposte ai problemi aperti oggi?
Bisogna dire che una spinta in questa un po’ stravagante direzione l’ha data Giorgio Napolitano, con il suo discorso di fine anno, e con un lungo intervento destinato alla rivista Reset, e ripreso quasi integralmente dalla “Repubblica”. C’è pure il fatto, anch’esso inedito, che il Presidente della Repubblica è rimasto quasi l’unico esponente della politica dei partiti e delle istituzioni a conservare una autorità riconosciuta da una maggioranza schiacciante dei cittadini e riaffermata, più o meno sinceramente, da tutte le forze politiche, con l’unica recente eccezione della Lega, passata a contestare rumorosamente il governo Monti, e quindi Napolitano che l’ha promosso.
Tra queste cose c’è un legame preciso a mio avviso. Del discorso di fine anno di Napolitano mi ha colpito il riferimento esplicito – una novità inusuale nel suo lessico pubblico – a un passato politico e personale vicino al mondo del lavoro, evocato pur senza citare quel Pci di cui il Presidente è stato a lungo dirigente di primo piano. Penso non da ora che la crescente popolarità di Napolitano sia dovuta, insieme alle sue doti intellettuali e morali che risaltano nel confronto con tanta altra parte del ceto politico, anche al fatto che incarna una “differenza” originata proprio al suo essere stato “comunista”, per quanto esponente dell’ala ritenuta più moderata e “liberale” di quel partito.
E’ un pensiero che mi è venuto, in un mondo in cui l’autorità maschile nella politica e altrove se la passa assai male, guardando ad altre “eccezioni”, per esempio quella di Obama. Un leader oggi affaticato, ma che ha incarnato una forte e nuova autorità politica certo basata anche sulla “differenza” nel suo caso costituita dall’essere un nero. Queste “differenze”, sia pure così distanti e “diverse” tra loro, dicono verità controverse e profonde del vissuto di questi due uomini: in un certo senso aumentano l’attesa pubblica nei loro confronti e rendono più attento e teso il giudizio sul loro operato.
E’ un altro motivo per cui non mi convince affatto l’interpretazione negativa del ruolo di Napolitano che viene avanzata non solo dalla destra leghista e nemmeno troppo dissimulata da tanta parte del Pdl, ma anche da una parte della sinistra che lo accusa di avere compiuto un gesto autoritario, se non “golpista”, nell’investitura a Monti.
Lo “strano” – come ha detto Monti parlando con Fabio Fazio in tv – governo dei tecnici spinto da Napolitano e da un concerto internazionale (da Merkel e Sarkozy allo stesso Obama) molto preoccupato per le sorti dell’Italia nelle mani di Berlusconi, parla in realtà di una doppia mancanza della politica italiana: il declino rovinoso del Cavaliere – alla fine riconosciuto da lui stesso, con la crisi della sua maggioranza – e l’immaturità, l’inconsistenza di una alternativa di sinistra, anche questa riconosciuta dallo stesso Bersani, che ha considerato troppo rischiose le elezioni sull’orlo di una catastrofe finanziaria per il paese.
Paradossalmente i “tecnici” sono chiamati da queste circostanze a svolgere un ruolo che più politico non si può nella recente storia repubblicana: risanare davvero i conti pubblici, fare davvero alcune riforme di cui si parla da decenni (pensioni, mercato del lavoro, liberalizzazioni, welfare) e per sovrappiù – come ha detto ancora Monti nel suo stile sornionamente ironico – aiutare gli stessi partiti a riprendersi un po’ dal loro “penoso” rapporto con l’opinione pubblica.
Di questa drammatica caduta di autorevolezza Napolitano è perfettamente consapevole. Lo ha detto a chiare lettere nel suo intervento per Reset parlando anche della insufficienza delle attuali leadership europee se paragonate alla stagione degli Adenauer, De Gasperi, Monnet. E non è un caso che la sua cultura e la sua vita lo portino a ricercare la fonte di una nuova possibile credibilità della politica in quelle stagioni della storia italiana in cui il riferimento alla classe operaia era il fondamento di relazioni politiche effettivamente molto più produttive di una autorità riconosciuta. In forza della quale si chiedeva ai lavoratori di “fare sacrifici” per il “bene del paese”.
E’ interessante un altro fatto strano: un uomo assai più giovane di Napolitano e su posizioni molto più di sinistra come Maurizio Landini gli risponde polemicamente che negli anni ’50 la situazione sociale era “meno drammatica” di quella attuale. Forse un lapsus in cui emerge una speculare forma di nostalgia per quel radicamento operaio e quell’autorità politica perduta?
Ma la memoria critica del passato è utile se è legata a una capacità di lettura del presente. E’ lo stesso esame storico a suggerirlo. Il “Corriere della Sera” partecipa a questo clima di inquietudine e smarrimento nostalgico della cultura politica ripubblicando “i maestri del pensiero democratico” laici e cattolici. Tutti rigorosamente uomini: dal buon Einaudi a Croce, Bobbio, Dossetti, La Malfa ecc. L’ultimo volumetto uscito raccoglie estratti dai molti scritti e discorsi di Aldo Moro (non però dalle sue controverse ma imprescindibili lettere dalla prigionia).
Moro è figura che riassume tragicamente grandezza e limiti della vicenda politica italiana, che accelera la sua parabola discendente forse proprio dal giorno del suo rapimento. In questi testi quel che colpisce sono l’ansia e la tensione continua rivolta al mutamento sociale, culturale e psicologico del presente, e alla dialettica tra libertà e potere. Non per caso Moro fu uno dei politici italiani più sensibili alla rivoluzione del ’68, anche rispetto a molti esponenti della sinistra. La sua arte della mediazione non riuscì a favorire tutto il rinnovamento necessario nel suo partito e nell’Italia degli anni ’70. Un discorso che può valere anche per il Pci di Napolitano e di Berlinguer. Ma da quell’epoca remota forse potrebbe venire uno stimolo, un’ispirazione sul come orientare e aprire i nostri sguardi su tutto ciò che ci succede intorno oggi. Per non restare ancora bloccati, con la testa girata all’indietro.
Alberto Leiss