Quello che colpisce del vortice finanziario e politico che ci circonda non sono tanto le ansiose e azzardate previsioni sulle conseguenze di una catastrofe prossima ventura, o le finte certezze di chi palesemente naviga a vista e cerca di conformare una situazione nuova a idee e a ricette superate, quanto la mancanza di coraggio nell’osservare la realtà che chiede radicali mutamenti di prospettiva e di pratica .
Spostare lo sguardo sul risvolto umano della nuova dimensione globale che caratterizza il nostro vivere e provoca il nodo intricato in cui ci troviamo, sembra impossibile, mentre invece potrebbe essere l’unica strategia di un “governo” nazionale ed europeo all’altezza della fase in cui si dibatte il vecchio mondo occidentale.
Queste sono le richieste dei movimenti che da quasi un anno occupano le piazze dei paesi che si affacciano nel Mediterraneo e degli Stati Uniti per chiedere una trasformazione dell’economia e della finanza.
Tuttavia questo non accade perché la politica istituzionale è chiusa in una coazione a ripetere a cui la costringe l’epistemologia del capitalismo globalizzato, quella che ha segnato più di trenta anni di neo-liberismo centrati sull’avidità e l’individualismo, che è riuscita a impadronirsi della vita degli individui , ha reso il lavoro merce e mette in continuo pericolo l’habitat. Un’epistemologia che non riesce più a organizzare la convivenza, ma piuttosto genera nuove violenze e nuove esclusioni.
La “crisi di sistema” che viviamo è infatti, frutto di un’accelerazione in cui tecnica e finanza hanno fatto saltare gli assetti istituzionali e relazionali su cui l’Occidente aveva basato l’organizzazione della produzione materiale di beni e della riproduzione umana e hanno avvicinato il mondo, senza tuttavia preoccuparsi di quello che questo avrebbe comportato per le condizioni di vita di uomini e donne. Si è trattato di un lungo processo che ha stravolto territori, leggi e culture differenti, sottoponendoli a tensioni multiple, giocando con gli immaginari e con i desideri di libertà e producendo l’esplosione dei soggetti e delle relazioni.
Di questo anche abbiamo parlato nell’incontro di presentazione del numero speciale di Leggendaria sulla “Cura del vivere” che il Gruppo del Mercoledì – di cui faccio parte insieme a Bandoli, Boccia, Dejana, Gallucci , Paolozzi, Sarasini, Stella e Vulterini – ha redatto chiedendo contributi a chi nel proprio agire politico si è interrogato su come la cura, considerata molto spesso costrizione o negazione dell’autodeterminazione femminile e quindi destino biologico da rifiutare, possa oggi divenire “il terreno su cui contendere “il comando” sulle vite in questa contemporaneità globalizzata”.
Il tema della cura come luogo delle relazioni materiali e affettive tra soggetti diversi sembra essere il “non detto” della politica. Soprattutto in Europa, dove accanto alle formule del rigore economico e finanziario che smantellano il vecchio “welfare state”, si propone il ritorno ai principi etici per disciplinare l’organizzazione sociale e dare una risposta alla perdita di senso dell’agire collettivo.
In Italia, tutto questo è stato chiarissimo nella costruzione del nuovo governo della “crisi” in cui la presenza dei cattolici è stata predominante. Si pone quindi, l’esigenza di una riflessione molto accurata, per fare in modo che questo cambiamento non si trasformi nel tentativo di restaurazione di un’idea astratta di morale e di famiglia, ma offra invece l’occasione per riconoscere e accettare le nuove soggettività e le nuove pratiche politiche che uomini e donne di tutto il mondo stanno tentando nella loro ricerca di giustizia e di libertà.
Discutere del “rovescio” della cura, ovvero della forza dirompente che questa potrebbe avere se la si spostasse dalla sfera personale a quella politica, è dunque, un’esigenza sentita da molti e indotta dalla mutazione globale che stiamo attraversando. Tuttavia questa prospettiva, come primo passo, “pretende riconoscimento” dei soggetti in relazione per non scivolare nell’essenzialismo biologico a cui il femminismo, in particolare quello che già negli anni settanta mise a nudo l’intreccio tra produzione e riproduzione, si era ribellato.
A distanza di quarant’anni è giusto riprendere quelle riflessioni con nuove capacità di analisi, sia dei tempi e dei modi in cui oggi uomini e donne affrontano il lavoro pagato e non pagato, che del “passaggio a Occidente” di tate colf e badanti , che del senso delle relazioni di cura.
Forse per questo il tema della “cura del vivere” sotto vari aspetti è oggi al centro delle pratiche di molti gruppi femministi , vecchi e nuovi.
La cura non è un destino femminile, ma se si vuole capire qualcosa di più del mondo in cui viviamo non si può ignorare la nuova centralità politica, i più colti direbbero biopolitica, che oggi assume il sapere delle donne. La convivenza, nell’esperienza di ciascuno e di tutti è garantita dalla possibilità di cura degli individui e delle comunità al fine di produrre il benessere della “comune umanità” che vive in questo pianeta. Il problema della cura è stato affidato nella maggioranza delle culture del mondo alle donne, restringendone tuttavia l’ambito nella sfera privata e familiare, che sola si pone esplicitamente il compito di gestire la vita, intesa come ciclo biologico e psicologico, delle singole persone . Gli spazi pubblici e i destini delle comunità sono invece stati affidati al potere degli uomini che li hanno regolati secondo i propri desideri e le proprie capacità. Per questo un’idea nuova di convivenza richiede il rovesciamento di quella gerarchia.
Il mio lavoro nella cooperazione mi ha insegnato che l’avere separato questi ambiti, relegando la cura in una posizione di secondarietà ha spesso generato pratiche di dominio e violenza non solo tra i sessi, ma sull’insieme delle regole della convivenza, specialmente negli ultimi trent’anni di globalizzazione.
Forse per questo mi piacerebbe che il “Ministero della cooperazione e dell’integrazione”, vera e ancora non ben definita novità introdotta dal Governo Monti, fosse l’occasione per ripensare alla dimensione globale che ha assunto il tema della cura del vivere, partendo dall’esperienza di chi la pratica e sottraendola alla secondarietà .