“C’è stato un momento, dopo il 1982 – l’anno delle stragi di Sabra e Chatila – in cui sono stata in qualche modo costretta a rimuovere quella che, scusate il bisticcio, era stata un’inconscia rimozione: la necessità di rimettere insieme le due identità che più mi hanno segnata: quella ebraica – con la ferita delle leggi razziali e della Shoah – e quella democratica, di sinistra e comunista“.
Con il libro “Donna, ebrea e comunista. Una vita con i grandi del ‘900“ (prefazione di Massimo D’Alema) Bice Foà Chiaromonte si propone appunto l’impresa complicata del “rimettere insieme“.
Ma già dal titolo si capisce che le identità sono più di due. D’altronde “in ognuno di noi coesistono tante anime che non sempre riescono a convivere pacificamente, dicono gli ebrei forse con maggiore consapevolezza degli altri“.
Per Bice c’è anche l’anima napoletana, quella dell’insegnante, dell’architetta, della corista. E della nuotatrice, se mai vi capitasse di vedere il suo corpo diventare leggerissimo quando si tuffa nelle acque della costiera Sorrentina, dalle parti di Seiano.
Settantasette anni, i capelli tagliati corti che, specialmente d’estate, diventano ancora più bianchi sulla faccia abbronzata, l’autrice di questo “Diario minimo“ nasce a Napoli. In famiglia si vanta una zia suffragetta alla fine dell’Ottocento, un nipote consigliere comunale socialista prima dell’avvento del fascismo. Famiglia colta e laica. Ramificata tra i Foà, i Sereni, i Tagliacozzo e i Pontecorvo. Un groviglio di legami, dei salti generazionali dovuti “alla numerosa prole di alcuni miei parenti“ (da dieci fino a ventiquattro figli).
Cresce felice la ragazzina ebrea, circondata da una salda rete di rapporti. Fino al 1938 quando “l’appartenenza alla razza ebraica deve essere denunziata ed annotata nei registri dello stato civile e della popolazione“ (art. 9, capo II del DL 17 novembre 1938).
Il fratello Gualtiero “che aveva ventisette anni, e con il cugino Bruno Foà aveva aperto uno studio legale, di punto in bianco viene cancellato dall’albo degli avvocati. Il giovane procuratore che avevano da pochissimo associato allo studio – e che in seguito sarebbe diventato un personaggio molto importante della politica italiana – il giorno stesso della pubblicazione dei decreti si fece trovare sul pianerottolo e impedì loro addirittura di entrare, dicendo “voi non siete più avvocati”. Partirono in meno di un mese…”.
Scoppia la guerra. Nel ’43 la famiglia si rifugia a S. Martino Valle Caudina. Lì si svolge l’esame di licenza media di Bice. La giovane sfollata dovrebbe promettere di “eseguire gli ordini del Duce e di servire la causa della Rivoluzione fascista“ ma non vuole giurare il falso. Salta fuori il suo “moralismo“? Certo, non può giurare fedeltà a chi la costringe a “sostenere l’esame in queste condizioni“.
Il racconto si snoda lineare: l’iscrizione a Architettura, l’estate passata a Matera, la discesa nel Sasso Barisano “verso le quattro di mattina, perché dopo il sole ci avrebbe accecato“ sono esperienze preziose. Importanti, capaci di segnare la sua giovane età, gli incontri con Ludovico Quaroni, Manlio Rossi Doria, il giovane poeta sindaco di Tricarico, Rocco Scotellaro.
L’adesione al Pci è del 1953, nel corso della campagna elettorale contro “la legge truffa“. Arriva l’epoca dei primi comizi; il discorso dal palco e il bagno di sudore conseguente.
Nel “come eravamo“ napoletano compare Salvatore Cacciapuoti, l’operaio-segretario della federazione di Napoli, che molti accuseranno in seguito di avere tenuto nei confronti degli intellettuali metodi stalinisti “ma che a me ancora oggi sembrano sostanzialmente un po’ troppo sbrigativi“. E poi Giorgio Amendola, Giorgio Napoletano, attuale presidente della Repubblica.
Napolitano sarà, nel ’56, testimone al matrimonio di Bice con Gerardo Chiaromonte.
Nella famiglia di Gerardo, originaria della Basilicata, le donne ruotano intorno al primogenito: i bocconi migliori sono riservati al maschio. Ciò che conta è che il maschio abbia le camicie perfettamente stirate.
Bice veramente manca di spirito oblativo e non le piacciono gli stereotipi. “Io, per orgoglio – non per modestia, ma perché mi capitava di farlo “in proprio”- non sono mai salita su un palco da dove Gerardo teneva un comizio“. Probabilmente, le ha pesato sentirsi chiamare “la professoressa Chiaromonte“, “la moglie di Gerardo“, “l’architetto Foà“, eppure è riuscita nella difficile operazione di non annullarsi.
Possiamo attribuire alla laicità questo suo equilibrio?
Certo, a Napoli ci fu un gruppo di comunisti assai anomalo, che non voleva imporre il bene – ciò che è buono – con la forza. Gerardo Chiaromonte, Carlo Fermariello, Pietro Valenza sono stati uomini scevri da pregiudizi, e pur essendo il Pci napoletano profondamente radicato nella classe operaia, hanno guardato con attenzione alla cultura liberale del tempo. Le tombe di tre dirigenti sono collocate una accanto all’altra nel cimitero di Vico Equense.
Nel ’61, Bice incontra Togliatti a Botteghe Oscure. Ponomariov, membro del Politburo, dirigente sovietico di primo piano, si è appena lamentato per lo scarso senso di fraternità dei comunisti napoletani. Il “compagno Ercoli“ ascolta compreso. Tace e intanto strizza l’occhio alla giovane comunista napoletana.
La famiglia Chiaromonte si è stabilita a Roma con le due bambine Franca e Silvia. Non sappiamo se l’addio di Bice alla facoltà di Architettura le abbia pesato. Adesso c’è l’insegnamento, accompagnato dalla volontà ferrea di migliorare la scuola. Alcune pagine del libro, in appendice, sono dedicate al Cidi (Centro di iniziativa democratica degli insegnanti), fondato assieme a Luciana Pecchioli.
Ma per se stessa, Bice ha fatto due cose: si è trasformata in appassionata corista nel Cima (il Centro italiano di Musica antica). Una terapia che “mi ha aiutata anche in momenti tragici, mi ha dato forza e mi ha impedito di lasciarmi andare“. E ha scritto questo libro dove il filo della memoria si snoda, sullo sfondo del secolo passato, riportando alla luce legami, relazioni, affetti.
Con Luciana Viviani, Giglia Tedesco, Fernanda Fermariello l’amicizia dura da decenni. Di Nilde Jotti ricorda l’abilità nel tirare la sfoglia quando è già presidente della Camera. “Per me che ho sempre avuto un rapporto conflittuale col cucinare, appariva come una marziana“.
Le pagine offrono, appunto, la mappa degli affetti, nominata con un linguaggio semplice, privo di aggettivi. “Ho scritto come parlo“ spiega. Ha scritto lasciando spazio al dialetto napoletano. E all’ironia. Dote che appartiene sia ai napoletani sia agli ebrei; un attrezzo capace di cacciare i vanitosi, un meccanismo che serve per espellere quanti vorrebbero pontificare sul mondo.
Questa dote permette a Bice di accennare, ma solo pudicamente, alla sua “anima“ materna. Che non ha nulla di eccessivo: non pretende fedeltà; non chiede sacrifici. Per questo Franca e Silvia le devono molto. Hanno appreso dalla loro mamma come essere libere, mantenendo un vincolo con il passato e conservando del passato ciò che è importante.