«L’ultimo femminicidio è uguale a tutti gli altri. Cambia solo la vittima…». Lo scriveva domenica su La Stampa Pierangelo Sapegno, aprendo la cronaca della fine di Ana Cristina Duarte Correia. Aveva abbandonato la sua casa e i suoi tre figli, non sopportando più la violenza del marito Ezio Di Levrano. Il quale l’aveva denunciata per “abbandono del tetto coniugale”. Per questo la donna aveva raccontato ai carabinieri il perché del suo gesto: le violenze subite. Ma lei no, non lo aveva denunciato. Voleva rivedere i figli e andare a trovarli è stato fatale: ennesimo litigio, e lui che la colpisce con il coltello davanti ai tre minorenni. Anche senza denuncia era comunque scattata la procedura del “codice rosso” a sua tutela. Ma la legge è stata ancora una volta inutile.
Perché tanta violenza maschile, sempre uguale a se stessa?
La domanda apre e si ripete, con tante risposte diverse, nel film “Il popolo delle donne”, regia di Yuri Ancarani. Una lunga intervista alla psicanalista Marina Valcarenghi, autrice di molti testi, protagonista di analisi in carcere a Milano. Con uomini condannati per le loro violenze, disposti a imboccare quel percorso analitico. Molti anni fa, quando per la violenza contro le donne l’attenzione mediatica era quasi nulla.
La risposta di Valcarenghi è netta: le donne sono state negli ultimi decenni protagoniste di una “liberazione velocissima” che ha “aperto una voragine nel patriarcato”. E molti, troppi uomini questo non lo sopportano. Anzi, secondo la studiosa i maltrattamenti aumentano proprio per questo motivo.
Ho visto questo film mercoledì scorso a Carrara, nel giardino di una bella villa con un’ottantina di altri spettatori e spettatrici. A promuovere l’incontro un gruppo nato da poco – si chiama “Informale”, e può essere letto anche all’inglese: in for male. Un incontrarsi per favorire un modo diverso di vivere l’essere maschi.
Nelle parole di Marina Valcarenghi tornano citazioni delle esperienze analitiche con uomini violenti, brandelli di udienze processuali. “Ogni tanto ci vuole una sberla, se no comanda lei”. “Non so perché l’ho fatto, ma le donne mi fanno venire i nervi”. “Vuole andare a lavorare? Ma che ne sarà della famiglia?”. Dietro la violenza brutale si intravvede da un lato una maggiore forza femminile, dall’altro la paura: lei è più forte di me, ma io la violento o la uccido.
D’altra parte nel discorso di Valcarenghi non tutto si appiattisce sulla dinamica tra carnefice e vittima. Dal maschile c’è la risposta isterica e violenta, ma anche quella “riflessiva”: accogliere la trasformazione aperta dalle donne come occasione di un cambiamento che arricchisce anche la vita degli uomini. E un tramite importante può essere la relazione tra i padri e le figlie.
Ma oggi le donne “non sono più oggetti – ripete Valcarenghi – hanno la responsabilità e la possibilità di reagire e difendersi. Senza delegare tutto alla legge o rifugiarsi in situazioni protette”.
Partecipo poi a uno scambio con Letizia Oddo, psicologa, che racconta un incontro in una scuola dove una ragazza si commuove e “difende” il fidanzato che la maltratta, la picchia, ma “non lo fa volontariamente”. Con Elena Belso, femminista di “Non una di meno”, ma ha fatto in tempo a vivere i primi gruppi di autocoscienza. Parla della rabbia delle giovani donne contro la cultura patriarcale e invita i anche i maschi a “ribellarsi”.
Risponde Marco Matteoli, insegnante di filosofia, e animatore del gruppo “Informale”: essere “femministi” per liberare se stessi “anche se è difficile rinunciare al privilegio”. Cita Foucault, Paul B. Preciado, Althusser… una discussione certo da continuare, approfondire.