“Il feto è di 16 grammi, dunque tutto nella norma”. Inizia così, con le immagini di una ecografia, il primo degli otto episodi di “A Body that Works” (notate l’oscillazione del titolo che si può tradurre con ”Un corpo efficiente” oppure “Un corpo al lavoro”).
Hanno creato la serie i due bravi sceneggiatori Shay Capon, Dror Mishani e la sceneggiatrice Shira Hadad. Tra gli attori Yehuda Levi, Rotem Sela, Gal Malka e Lior Raz (il Doron di “Fauda”).
Comunque niente è nella norma dal momento in cui Ellie e Iddo, dopo l’ennesimo tentativo e l’ennesimo aborto, decidono di ricorrere alla maternità surrogata.
Siamo in Israele: qui la maternità surrogata è legale e a monitorare la pratica entra lo Stato e naturalmente anche il sistema sanitario.
Ma la storia di “A Body that Works” non ha al suo centro la legge e neppure la surrogacy come problema politico, sociale, morale, etico. Piuttosto segue gli alti e i bassi di una relazione che si trasforma in un triangolo nel quale la vita di due donne, di un uomo, e poi di un bambino, di un nonno viene gettata nel mare aperto di sentimenti sconosciuti, costringendo le persone a rivedere le proprie abitudini, scelte, sicurezze.
Nulla viene nascosto dei disagi economici, dell’arroganza di chi ha di più in termini materiali e culturali, della ricerca di un figlio a tutti i costi, delle difficoltà di un adolescente impegnato a duellare con l’egoismo dei grandi, degli attacchi di gelosia appunto per “un corpo che funziona”, quello di Schen che porta avanti la gravidanza per Ellie e Iddo.
Le contraddizioni insite nella pratica della Gpa (anche il Sì o il No a un figlio è zeppo di incoerenze e smentite) le seguiamo attraverso la psicologia dei protagonisti. Ecco ciò che avviene tra due donne: una dal carattere troppo deciso, che deve rinunciare a avere la meglio; l’altra selvaggiamente umana ma assennatamente generosa. Le due sono prima in conflitto, poi indotte a riavvicinarsi da uno scambio nella quale la paura del parto, le doglie, il tempo del dolore di Chen diventano quelle di Ellie con una sorta di berdache (così gli esploratori francesi chiamavano la tradizione del cambiamento di genere tra i gruppi tribali dell’Ovest), salvo che qui si tratta di una assunzione tutta simbolica.
Quanto all’uomo, al futuro padre, tenta di sottrarsi a una madre possessiva ma infantilmente chiede amore per non sentirsi escluso.
In gioco tra i tre c’è appunto un corpo, quello simbolico e quello biologico. Maternità e paternità lacanianamente si traducono nell‘inesistenza del rapporto sessuale: sul serio in questo modo si riesce a tappare il vuoto e ci si sente pacificati, senza desiderio?
Poco pubblicizzata (addirittura il titolo non compariva tra le novità di Netflix di giugno: forse obbedendo al boicottaggio assurdo dei prodotti israeliani?) “A Body that Works” a me sembra una delle migliori serie del 2024. Me l’ha segnalata un amico. Fidatevi del passaparola e guardatela.