Pubblicato nela edizione on-line del manifesto il 19 dicembre 2023 –
«…la coincidenza tra la campagna elettorale Usa e le elezioni europee nel Vecchio Continente autorizza qualche preoccupazione: una barriera si è rotta, l’indicibile può essere detto, forse diventare normale». Sono le ultime parole del commento che ieri (18 dicembre) su La Stampa Flavia Perina ha dedicato al discorso di Donald Trump in cui ha affermato che gli immigrati «stanno avvelenando il sangue del nostro Paese».
Perina viene da una storia politica di destra – è stata tra l’altro direttrice del Secolo d’Italia – ma si è spostata nel tempo su posizioni sempre più “di centro”, laiche e democratiche. Per esempio – si legge sul profilo che le dedica Wikipedia – da parlamentare nel 2009 fu tra i primi firmatari, con Walter Veltroni, della proposta di legge, mai attuata nemmeno dai governi di centro-sinistra, per riconoscere ai cittadini extracomunitari in Italia da almeno 5 anni il diritto di voto amministrativo.
Questo aumenta il rilevo del suo allarme. Perina ricorda che Trump aveva già fatto affermazioni simili in una intervista criticata dall’Anti-defamation League, una organizzazione internazionale ebraica contro il razzismo che aveva denunciato l’evocazione del binomio “Blut und boden” (sangue e suolo) tipico dell’ideologia nazista (il motto figurava, con le svastiche, nel simbolo del ministero per l’alimentazione e l’agricoltura del regime di Hitler). Ma Trump forse è stato ringalluzzito dalla critica, e ha gridato il suo credo razzista in campagna elettorale.
L’autrice per alcuni versi tende a ridimensionare: qui la sola idea che esista un “sangue americano” fa un po’ ridere, visto che quasi tutti i popoli europei hanno contribuito con flussi migratori a creare il melting pot statunitense. E le classi dirigenti del continente, comprese quelle più a destra, sembrebbero evitare questa deriva linguistica, concettuale e politica.
Tuttavia non si può ignorare che con le sue parole il candidato al potere supremo del più grande paese occidentale ha rotto quella “barriera” simbolica. E che tutte le destre (e a volte non solo le destre) da molti anni fanno della campagna contro l’immigrazione il cavallo di battaglia della raccolta di consenso elettorale. Purtroppo con successo.
Il messaggio è chiaramente rivolto al governo italiano, alle forze che lo sostengono e in particolare alla sua leader Giorgia Meloni. Perina ricorda che il premier inglese Rishi Sunak, l’albanese Edi Rama, e Meloni hanno in questi giorni firmato il loro patto sull’immigrazione presentandolo come una misura «contro l’immigrazione clandestina» e come una «questione di legalità e lotta alla tratta di esseri umani», prevedendo però centri di identificazione e rimpatrio fuori dai confini dell’Unione. Ma fermandosi prima di pronunciare «termini che la cultura democratica ritiene inaccettabili e urticanti. “Deportazione”. “Campi di detenzione”. “Trasferimenti forzati di massa”».
Eppure è proprio questo lo scenario che sta dietro i propositi di deportare, appunto, richiedenti asilo incolpevoli in Ruanda o sulle coste albanesi. Tant’è vero che nella stessa Albania sono emerse preoccupazioni di legittimità costituzionale per questo tipo di scelte.
Se ha senso insistere perché Meloni, e i suoi, si dissocino in modo finalmente chiaro dalla loro storia col fascismo, è ancora più importante valutare bene le scelte attuali. Domenica Giorgia Meloni ha preso per mano, abbracciato e baciato Santiago Abscal, leader di Vox. Uno che ha dichiarato, sempre alla Stampa di ieri, che vorrebbe vedere in carcere, se non “appeso per i piedi”, il premier spagnolo Sanchez, e che spera nella vittoria di Trump.
I gesti valgono quanto le parole?