THE OLD OAK – Film di Ken Loach. Con Dave Turner, Ebla Mari, Claire Rodgerson, Trevor Fox, Chris McGlade, Col Tait, Jordan Louis, Chrissie Robinson, Chris Gotts, Jen Patterson, Arthur Oxley, Joe Armstrong, UK, Francia, Belgio 2023. Sceneggiatura di Paul Laverty, fotografia di Robbie Ryan, musica di George Fenton.
Siamo nel 2016 in un paesino in declino della contea di Durham, nordest dell’Inghilterra, una volta ricca zona mineraria. A distanza di trent’anni sono rimasti solo pochi nuclei familiari che abitano ancora lì, i cui uomini si rincontrano al pub The Old Oak, unico luogo collettivo rimasto aperto. Il locale, a sua volta dimezzato, ha una grande sala chiusa da anni ed è tenuto da T.J. Ballantine (interpretato da Dave Turner), nome curioso per uno che vende alcolici.
Il basso costo degli affitti delle case in degrado, attira gli immigrati siriani fuggiti dalla guerra che arrivano in pullman e in tanti. Purtroppo gli abitanti che frequentano il pub non sono aperti né al “diverso” né alle novità in genere: nasceranno così degli attriti e il locale sarà palcoscenico dei contrasti.
Così dirà uno degli abitanti del villaggio: «Abbiamo passato tutta la vita in questo paese. E ora dovremmo dividerlo con quelli là? Ma chi li conosce?!».
Il proprietario del pub è un uomo disilluso dalla vita, che ha visto spezzarsi tutti i suoi legami e attualmente vive con una cagnetta trovatella, da un paio di anni. T.J. riesce a mantenere aperto a stento il suo pub e ha da un lato, tutto l’orgoglio della classe lavoratrice, dall’altra, la disperazione di non avere più uno scopo nella vita.
Un incontro casuale lo mette in contatto con la giovane siriana Yara (interpretata da Ebla Mari) che parla bene la lingua inglese e ama fare fotografie in bianco e nero. Ne nascerà una innocente amicizia che li porterà a collaborare con i volontari del luogo per aiutare l’integrazione delle famiglie siriane. Il cibo è il motore principale che riporta in vita il senso di comunità: “When you eat together, you stick together” si legge su una targa nella sala che era chiusa, ma che T.J. mette a disposizione per le cene comunitarie tra inglesi e immigrati. Una volta si diceva che si fa “la guerra tra poveri” ed è proprio così, infatti, le persone inaridite dalla miseria vedono nello straniero una sorta di capro espiatorio delle loro amarezze e frustrazioni. E così anche i loro figli chiedono: «Perché gli arriva tutta quella roba?», quando ai profughi siriani vengono dati alcuni beni di prima necessità. «Hanno perso tutto, fuggono dalla guerra…», risponde T.J.
La fotografia come memoria è un tema ricorrente nel film: le foto che Yara si porta dietro dalla zona di guerra, la foto del padre fatto prigioniero, le foto che scatta alle persone che incontra, così anche le foto che T.J. custodisce nella sala che tiene chiusa e che testimoniano tutto il glorioso passato dei minatori e delle loro battaglie degli anni Ottanta per contrastare la chiusura delle fabbriche. L’obiettivo di Yara guarda sempre al reale così come lo sguardo del regista alla necessità di analizzarlo attraverso i suoi film.
Bella e triste è l’atmosfera di luoghi nordici abbandonati. Anche se la maggior parte del film è girato negli interni le viste urbane mostrano i classici mattoncini rossi delle case operaie, la monumentalità della cattedrale e il fascino dell’oceano nonostante una spiaggia che evochi desideri di morte.
A mio avviso “The Old Oak” non è il migliore film di Ken Loach (regista che io amo molto, peraltro): è un po’ troppo didascalico, ad esempio io avrei evitato la lunga scena in cui Yara spiega a T.J. la situazione storica del suo paese. E anche il finale è una conclusione che crede, nonostante tutto, che possa vincere il cuore della gente.
Negli ultimi due film – “Sorry, I Missed You” del 2019 e “Io, Daniel Blake” del 2016 – Ken Loach ha voluto mostrare il nuovo tipo di sfruttamento su cui è basata la cosiddetta gig economy e le conseguenze sulla vita privata dei lavoratori. La gig economy è una delle nuove forme di organizzazione dell’economia digitale e si può spiegare come “economia dei lavoretti”; corrisponde a mestieri che una persona potrebbe svolgere a tempo perso. Il modello va verso un lavoro sempre più parcellizzato, affidato a freelance ma gestito dalle piattaforme con formule di organizzazione che molto spesso sono uguali a quelle del lavoro alle dipendenze.
Con il cinema di Ken Loach si entra nelle vite dei personaggi vivendoci insieme e affrontando con loro il senso d’impotenza e la ricerca di un’alternativa. Loach è sempre dalla parte dei marginali, dei disoccupati, delle persone semplici che abbiano comunque subìto dei soprusi. Il suo è un eccellente esempio di cinema militante.
Così afferma la produttrice Rebecca O’Brian: «Se si mettono insieme, i film di Ken costituiscono una sorta di lunga storia delle nostre vite. Mi piace pensare che tra 200 anni, se qualcuno vorrà farsi un’idea della storia sociale della nostra epoca, potrebbe trovare una risposta guardando cinquant’anni di film di Ken Loach e dei suoi sceneggiatori».