Pubblicato sul manifesto il 19 settembre 2023 –
Si è appena concluso, in quel di Modena, il festival della filosofia quest’anno dedicato al tema “parola”. L’estensore di questa rubrica sente il dovere di documentarsi, sia pure a posteriori, sulle molte parole pronunciate sulla parola in ben duecento incontri e discussioni. Per ora ho colto al volo, anzi al video – rintracciato in rete – una dichiarazione a latere (che strana la persistenza di questo latinismo) dal professor Massimo Cacciari, uno dei primi relatori. Il quale ha ricordato che parola deriva dal latino (rieccolo) parabola, un termine che ha a che vedere con il dire allegorico, con la metafora, e insomma con il narrare, il raccontare, il parlarsi, appunto.
A dirla tutta, deriva a sua volta dal verbo greco parabàllo, gettare innanzi, mostrare, quindi anche esporre…
Cacciari ricordava questa origine del significato augurandosi che si riuscisse a “riprendere la parola”. In un tempo in cui le parole “si consumano tragicamente” si ricominciasse, si reimparasse a interloquire, confrontarsi. E in questo senso apprezzava che al festival modenese fossero previsti più dialoghi che solitarie conferenze.
Che ci siano pericoli per come vengono usate le parole sembra essere sempre più chiaro. Parole come pietre, si dice. Ma a volte anche certi effetti strani del linguaggio, che rischiano il ridicolo ma provocano una certa inquietudine.
Sensazione provata leggendo una delle cronache della presenza a Lampedusa della prima ministra italiana e della presidente della Commissione europea.
Meloni e von der Leyen sbarcano nell’isola, e dopo un breve colloquio con alcuni cittadini e un altrettanto breve visita al molo degli sbarchi e all’hotspot, svuotato «di gran parte dei 7 mila ospiti e ripulito per l’occasione, dicono all’unisono che “l’immigrazione illegale è una sfida europea e ha bisogno di una risposta europea” e “decidiamo noi chi deve entrare in Europa non certo i trafficanti”».
Forse perché musicomane il termine unisono mi fa subito pensare agli strumenti che eseguono insieme esattamente le stesse note nella stessa successione e alle medesime altezze. E quindi mi si configura l’immagine delle due signore bionde che, come due protagoniste di una qualche rappresentazione teatrale, o forse come in un vecchio divertente cartone animato, pronunciano quelle frasi proprio insieme e contemporaneamente, chissà se in italiano o in tedesco, o ognuna nella propria lingua. Uno stravagante coretto nell’isola al centro dell’emergenza epocale.
Capisco l’esigenza di sintesi, e forse l’intenzione di sottolineare l’accordo politico profondo tra le due protagoniste, impegnate a “parlarsi” specularmente e metaforicamente con l’altra coppia diversamente assortita sul palco di Pontida.
Tuttavia questa parabola produce una sorta di straniamento. Tanto più se accostata alla grande foto che ritrae di spalle von der Leyen e Meloni, con accanto di profilo il ministro Piantedosi e il sindaco di Lampedusa, e di fronte la distesa di mare ricoperta totalmente dai barchini e dai desolati rottami che hanno portato migliaia di pericolosi disperati a cercare una vita migliore dalle nostre parti.
Avranno detto anche qualcosa sull’umanità di quelle persone? Non sembrerebbe. Tantomeno hanno pensato di visitare i 1.500 migranti restati nell’ hospot «malgrado l’impegnativo maquillage».
Nella stessa cronaca, però, la voce di un cittadino di Lampedusa ci riporta a una dimensione meno perturbante: «Vengono, capiscono, e poi? Non riescono nemmeno a eliminare i barchini: le ditte che riciclano il ferro lo farebbero gratis».
La premier italiana questa volta reagisce a voce sola: «Scrivetemi le vostre richieste, le leggerò».