I malati e la cura. Siamo in un tempo nel quale esiste ormai un numero sempre minore di alternative: per la tac un’attesa da quattro a otto mesi; al Pronto Soccorso impossibile rivolgersi perché somiglia a una bolgia infernale.
Così, sullo star male la lingua rimane muta, inerte, sottomessa. Ma cosa accade al corpo infermo? Sappiamo bene che il fisico di un uomo, di una donna, di un bambino, di una vecchia sono differenti però si ritrovano uniti da un’identità comune, quella di non sani.
Sono tante le identità doloranti, impaurite, inseguite dalla solitudine e dall’indifferenza; appartengono a corpi aggrappati a un letto, a una barella, abbandonati nel reparto geriatrico di un ospedale, nella casa di riposo.
Il Covid è stato il tempo del terrore e del tentativo di ripensamento. Interrotte le relazioni, sani e malati hanno subìto un mutamento simbolico lacerante, ancora oggi poco riconosciuto.
Adesso i pazienti, costretti a una condizione di dipendenza, hanno timore di interrogare, di chiedere. D’altronde, è sempre più difficile ottenere una spiegazione sul proprio stato: il medico ha fame di tempo e l’infermiere, l’infermiera, impregnati di fatica, devono tappare le richieste di aiuto del prossimo paziente.
Esagerazione? Chiedete in giro; fatevi raccontare.
Quanto ai primari (se per tanti scatta la pensione pur pienamente attivi e si portano dietro una scia di pazienti in qualche clinica privata) entrano nei reparti come il responsabile di neurochirurgia Derek Shepard in “Grey’s anatomy”, blindato dallo schieramento degli assistenti.
Se la sanità pubblica deve occuparsi del malato oltre a prevenire le malattie, chi sta male ha capito che qualcosa di irreversibile è accaduto sotto i suoi occhi. Qualcosa che gli impedisce di “essere visto”, di comunicare con “chi sa”. Un naufragio che nega l’ottimismo e la speranza.
A chi raccontare l’esperienza dalla quale magari ci si è salvati a fatica, anzi, miracolosamente, per un colpo di fortuna, per un ribaltamento del destino inatteso?
Sempre più lontana la memoria di una stagione nella quale all’ interrogativo “Dottore, ho dolore qui e qui” poteva seguire una spiegazione.
I malati scompaiono dal dibattito pubblico, eppure sono, siamo in tanti minacciati dai nuovi tagli agli esami, ai farmaci, ai posti letto nella manovra della prossima legge di bilancio, dal numero carente di medici di base e dalla difficoltà di parlargli. E non dipende solo dall’importanza che sempre più viene assumendo la sanità privata rispetto a quella pubblica, né dalla gestione che ne fa il governo di destra.
Naturalmente, tanti e tante sono le eccezioni, disposte comunque a prendersi cura di chi sta male.
L’ha riconosciuto nella bella intervista fattale da Giorgio Zanchini Michela Murgia (su Raiplay “Quante storie” del 16/5/23). Se i malati si sentono in colpa, ancora di più bisognerebbe nominare con precisione cosa gli sta accadendo, quale modificazione li coinvolge. “Ci si ammala anche con le parole dette e non dette” (Murgia).
Certo, la sanità è in sofferenza. Il personale scappa, la fatica è troppa, gli stipendi bassi.
Basta la spiegazione che si fanno “troppe visite inutili” (il ministro della Salute Orazio Schillaci)? E basta lamentarsi che per una puntura di zanzara ci si precipita al Pronto Soccorso e al Pronto Soccorso magari arrivano i parenti dei malati a minacciare i medici, gli infermieri?
Il fronte delle opposizioni ha annunciato di volersi unire (questa volta assieme a Matteo Renzi) per chiedere più fondi e assunzioni ma, come hanno insegnato le donne nella loro presa di parola su di sé e sul proprio corpo, occorre avvicinarsi a chi ha attraversato, sta attraversando un evento che può gettarlo nel baratro. “Trovare le parole è importante quanto prendere i farmaci” ha ripetuto Michela Murgia.
Per questo, se il Sistema Sanitario Nazionale è un bene prezioso che va difeso con buone leggi, manifestazioni, raccolta di firme, prendersi cura significa aprirsi alle esperienze dell’altro, raccoglierle, scriverle, pubblicarle, farne tesoro: insomma ricominciare – per troppo tempo non è successo – a “parlare empatia”.