Pubblicato sul manifesto il 6 giugno 2023 –
Ho letto il libro di Andrea Graziosi Occidenti e modernità (Il Mulino, 2023) che si propone di “vedere” meglio “un mondo nuovo” dopo il trauma della pandemia e dentro quello della guerra. Il testo termina cercando di indicare propositi politici “ragionevoli” (nel perimetro di una cultura liberaldemocratica di cui mi pare non si colga a fondo la crisi, comune a tutto il “progressismo”) soprattutto per un ruolo dell’Europa che è in gravi difficoltà, e confessando che si tratterebbe anche di «trovare nuovi discorsi che chi scrive non riesce a vedere».
Mi ha colpito che un saggio molto concentrato sui grandi problemi posti ai paesi occidentali “avanzati”, come il nostro, dalle tendenze demografiche – meno figli, meno giovani, sempre più anziani bisognosi di sopravvivere e curarsi – nomini sì il fatto che ciò dipende da scelte che fanno soprattutto le donne. E si accorga che tra i movimenti politici alle nostre spalle (dalla Rivoluzione francese alle lotte di classe ispirate da Marx, ai nazionalismi ottocenteschi e novecenteschi) tutti basati su “soggetti collettivi” più o meno mitizzati, sta anche la «rilevantissima eccezione delle donne, mobilitatesi seguendo un modello originale». Ma poi si cercherebbe invano qualche riferimento più approfondito a questo “modello”, al “nuovo discorso” che il femminismo ha prodotto, esercitando una critica radicale proprio di quelle idee di “soggetto” che hanno fondato la politica maschile sino a oggi.
Ci pensavo partecipando sabato e domenica alla Libreria delle donne di Milano al convegno organizzato dalle “Città vicine” e da “Identità e differenza” per «riflettere sulla pratica politica delle relazioni di differenza tra donne e uomini nelle questioni più pressanti del nostro presente». Tema arduo, ma ancora più difficile discutendone sotto l’impressione degli orrendi femminicidi di Giulia Tramontano, che aspettava un bambino, e della poliziotta Pierpaola Romano. E mentre la guerra in Ucraina diventa ogni giorno più sanguinosa e inquietante.
C’è un sacrosanto moto di rivolta e di insopportazione delle donne contro il ripetersi della violenza – seriale: maschi assassini perché non sopportano di essere lasciati o “intralciati” dalle loro compagne, amanti, mogli. E quello che facciamo noi uomini è manifestamente ancora troppo poco, troppo inefficace, troppo invisibile quando c’è.
Questo contesto drammatico però ha reso più vero il confronto, partito dalla spinta positiva delle amiche che hanno voluto l’incontro, con l’obiettivo di ritrovare, reinventare una pratica politica comune. Che ha avuto momenti di scambio importanti in passato, ma che è diventata negli anni recenti più discontinua e difficile. C’è stato – come ha detto Anna di Salvo – un “punto di arresto”. Come uscirne?
La discussione ha oscillato tra sentimenti di “disperazione” per come sta andando il mondo e di “speranza” per le energie, soprattutto femminili – come in Iran – che non si rassegnano. Tra il senso di impotenza di fronte alla guerra, e il desiderio di una pace che dalla logica della guerra prescinda totalmente. Una dimensione, prima di tutto, del come viviamo le relazioni con altre, altri. Che può già ora essere significata dall’esperienza artistica?
Tornerò su questa discussione.
La risposta degli uomini presenti ha riguardato le iniziative pacifiste, contro le armi, a sostegno dei maschi che in Russia e in Ucraina rifiutano di combattere, e l’idea – ne ha parlato Marco Cazzaniga – di organizzare incontri pubblici ricorrenti in cui raccontare e approfondire la ricerca di una politica comune, capace di esercitare il conflitto senza negare l’altra, l’altro come nemico.