RITORNO A SEOUL – Film di Davy Chou. Con Ji-min Park, Oh Kwang-rok, Han Guka, Jacky Golberg, Coproduzione franco-tedesca-belga 2022.
Freddie Benoit (interpretata da Ji-min Park) è una ragazza coreana adottata poco più di vent’anni fa da una coppia francese. Vissuta e cresciuta a Parigi, sbarca a Seoul quasi per sbaglio dopo che il suo volo per Tokyo viene cancellato. Qui incontra Tena, la receptionist dell’hotel, che la convince a rintracciare la sua famiglia biologica. Le suggerisce di andare da Hammond, un’azienda che gestisce le numerose adozioni di bambini coreani a Seoul. Infatti, riesce a contattare il padre biologico che, separato dalla madre, vive in una città sul mare e si sente in colpa per aver abbandonato la sua bambina. Accompagnata da Tena che le fa da interprete, Freddie andrà a conoscere suo padre, ma fatica ad accettarlo: è un uomo molto semplice a cui piace bere un po’ troppo. Il regista mostra Freddie alla ricerca delle proprie origini, ma l’Oriente in generale e la cultura coreana, in particolare, le sono molto estranee.
Il film si divide in tre periodi diversi: a venticinque anni Freddie è rappresentata ingenua ma apparentemente sicura di sé, probabilmente cresciuta in una condizione borghese protetta. La rivediamo a ventisette anni nel giorno del suo compleanno: è rimasta a Seul, ha un rapporto privilegiato con un ragazzo che però cerca di negare con scappatelle combinate sui social media. Freddie Benoit appare fredda e distaccata nei suoi rapporti affettivi: non si ama e non sa amare. L’abbandono è una ferita dolorosa che scalfisce profondamente e alla quale difficilmente si riesce a rimediare. Le reazioni possono essere diverse: si tende a negarlo ma, una volta che se ne è preso atto, si tende a contrastarlo, a far uscire una sorta di noncuranza e indifferenza nei confronti dei rapporti interpersonali. E così Freddie passa da una storia all’altra senza farsi coinvolgere realmente. La sua unica speranza di mettere insieme i suoi pezzi la ripone nella madre biologica, con la quale aspetta un incontro da anni.
La terza parte vede la protagonista ormai trentenne che lavora per una compagnia francese che vende armi; Freddie accetta di rincontrare il padre che sembrerebbe essersi placato bevendo un po’ meno e componendo piccoli brani di musica. Le fasi del film, e della vita di Freddie, sono contraddistinte proprio dalla la musica che ne diventa il denominatore comune attraverso un ritmo che avvicina le diverse anime e va oltre le lingue del francese, del coreano, e dell’inglese.
Ma la grande novità è che la madre, al quarto telegramma dell’azienda di adozione, accetta finalmente di incontrarla. Sarà l’unico momento in cui la sua sofferenza diventa manifesta e Freddie esplode in un pianto disperato.
Si chiude il film con una scena sicuramente più simbolica che reale in cui sembra che la tormentata protagonista abbia finalmente accettato le sue radici coreane, si sia riconciliata con il padre, con la sua semplicità ma anche con la sua artisticità, e prende anche atto del rifiuto materno.
Il conflitto tra due culture, oltre alla tematica dell’abbandono, è dunque il tema portante che Davy Chou evidenzia nel film. La contrapposizione si riscontra perfino nella città rappresentata in modo diverso ogni volta. Molto bella è l’immagine di Freddie nella terrazza del suo “attico” dove si vede nettamente che da un lato ci sono stradine strette con casupole a due piani e con panni stesi e, dall’altra, i grattacieli residenziali stagliati nello sky-line.
Il regista Davy Chou è francese ma figlio di genitori cambogiani e questo – dopo “Diamond Island” del 2016 – è il suo secondo film, che è stato ispirato sia dalla propria vita sia da quella di Laure Badufle, una sua amica di origine coreana. “Ritorno a Seoul” è stato presentato in selezione ufficiale nella sezione Un Certain Regard del 75mo Festival di Cannes del 2022 e in anteprima al 40mo Torino Film Festival. Nonostante l’ambientazione e l’uso di attori noti al cinema coreano (Oh Kwang-rok che interpreta il padre è un caratterista comparso già nella trilogia della vendetta di Park Chan-wook) si sente che il regista si è formato sulla cinematografa francese, nel ritmo estremamente rallentato del film e anche nell’assenza di scene esplicitamente violente.