«Grande fu il dolore di Adamo dopo la cacciata dal paradiso, ma più grande ancora quando vide il figlio Abele ucciso da Caino. Per l’immane sofferenza piangeva, pensando: “Allora da me usciranno popoli, si moltiplicheranno sulla terra, ma solo per soffrire tutti, per vivere nell’inimicizia e uccidersi a vicenda”…». Così scrive il mistico ortodosso Silvano del Monte Athos, e le sue parole sono cantate nell’opera di Arvo Pärt Adam’s Passion, rappresentata a Roma alla fine del mese scorso (ne ha scritto su questo giornale Mario Gamba).
Ho assistito anch’io, nello scomodissimo teatro sotterraneo della “Nuvola” all’Eur, alla scenografia di luci e figure con cui Robert Wilson ha amplificato, materializzato le invenzioni sonore di Pärt. Dalla Sequentia per archi e percussioni che apre l’opera, composta per la “prima” nel 2015, alle altre partiture scritte precedentemente che si susseguono: il Lamento di Adamo (2010), per coro e orchestra, sul testo russo di Silvano del Monte Athos, Tabula rasa (1977) per due violini, orchestra e pianoforte preparato, e Miserere (1989/1992) per soli, coro, ensemble e organo, su un testo latino che fonde il Dies Irae e il Salmo 51, utilizzati nella messa da requiem cattolica romana.
Lo spettacolo totale di Wilson e Pärt mi è rimasto molto impresso. E continua a parlarmi del terribile momento che viviamo.
Il compositore, come si sa, è nato (nel 1935) e ha studiato in Estonia quando era uno Stato dell’Unione Sovietica. La sua musica – che guardava all’Occidente di Schönberg e all’Oriente di Prokof’ev e Šostakovič – non piaceva ai burocrati comunisti. Tantomeno fu apprezzata la svolta verso il sacro compiuta nel 1968 – anno non casuale – con il Credo: nel bel libro Anime baltiche, di Jan Brokken (Iperborea, 2014) si racconta che la prima esecuzione a Tallin fu accolta con entusiasmo come un annuncio di liberazione. Negli anni successivi la vita e l’arte di Pärt cambiarono radicalmente: si convertì alla Chiesa ortodossa e poi, in un lungo silenzio creativo, inventò un originale criterio compositivo e estetico, ispirandosi alla tradizione gregoriana e barocca. Nell’80 scappò con la famiglia a Vienna e a Berlino.
L’incontro con l’americano Wilson è avvenuto per iniziativa di un papa cattolico, Benedetto XVI, che aveva invitato molti artisti in Vaticano, tra cui i due futuri coautori dell’opera di cui parliamo. Musica, arte e cultura – una cultura insieme laica e religiosa – che dalla mistica russa passano attraverso le avanguardie novecentesche e le esperienze postmoderne di oltreoceano, per giungere a un messaggio di libertà e di pace.
Il dolore e il senso di colpa di Adamo (la donna, Eva, resta in secondo piano: volere la conoscenza non è certo grave come usarla al fine di dominare uccidendo?) si uniscono all’evocazione della guerra: due bambini passano imbracciando un mitra.
Il compositore commenta negativamente «l’orgoglio e la curiosità» di Adamo, «un morbo che continuiamo a portarci dentro». Come fanno – si chiede – paesi diversi «a convivere nello stesso mondo?» La risposta sta nella comunicazione «sul piano politico, economico, culturale». Sulla ricerca «in profondità» delle «radici comuni». E una volta trovate «ci renderemo conto che siamo tutti legati. Perché il mondo è un unico organismo».
Arvo Pärt è tornato nel 2010 nella sua Estonia. Il clima prodotto dalla guerra di Putin in Ucraina è tale per cui nei paesi baltici – riferisce un articolo dalla Lituania pubblicato da Internazionale – ora si combatte la cultura e la lingua russa, che pure è parlata da ampie minoranze. Chissà se il messaggio del più noto musicista che viene da quel mondo sarà ascoltato.