8 Marzo 2023. E come sempre una si chiede: a che punto siamo? Al punto che nel discorso pubblico si è consolidata la presenza delle donne, delle iraniane in lotta, a mani nude per le strade di Teheran, agitando i lunghi capelli; delle curde nel Rojava combattenti “fino alla pace” ma anche delle siriane, irachene, turche e delle afghane partite forse da Izmir, seguendo la rotta più pericolosa del Mediterraneo, per inabissarsi davanti a Steccato di Cutro con la “Summer love”.
Le loro madri hanno conosciuto i bombardamenti prima dei russi, poi degli anglo-americani. Le figlie sono fuggite dai talebani senza sapere nulla del mare; magari lo vedevano per la prima volta spinte dalla fame che avevano di un’altra vita.
Un’altra vita alla quale l’Europa risponde alzando muri di cemento o di filo spinato. Trump, d’altronde, ha promesso come “ultimo atto” di costruire altri 300 km di muro tra Stati Uniti e Messico.
Ora, se la lingua si modifica con la realtà, quella usata dai governi esprime, simbolicamente, il confine, la chiusura, il rifiuto. Anche da noi quando il ministro Piantedosi dice che “la disperazione non può mai giustificare condizioni di viaggio che mettono in pericolo la vita dei propri figli” e cita “il carico residuale” dei migranti e parla di fattore d’attrazione (“pull factor”) delle navi umanitarie.
Ha ragione il Pontefice: “i viaggi della speranza non si trasformino in viaggi della morte”, tuttavia la soluzione offerta dalla presidente del Consiglio: “fermare le partenze” tralascia l’esistenza di un mondo in fiamme nel quale le partenze non si interrompono. Gli scafisti continueranno il traffico umano finché i paesi d’origine dei migranti saranno tanto inospitali; i naufragi proseguiranno fino a quando non verrà cancellata l’idea che i migranti sono degli “invasori”.
Il governo italiano dovrebbe averlo capito nel momento in cui concede l’asilo a migliaia di ucraine rifugiate. Sono donne esuli, scacciate dalla guerra, ma che alla guerra si sottraggono assieme alle russe, alle biellorusse che sotterraneamente compiono gesti di ribellione – ferme su un marciapiede inalberando un cartello – oppure facendo scendere dal parapetto di un ponte uno striscione per protestare contro “l’operazione speciale” di Putin.
Evidentemente, scoprire la presenza delle donne non è il miracolo di questo 8 Marzo. “Donna, vita, libertà” (“Jin, jiyan, azadi”) è un lavoro a rischio, non di oggi, composto di piccoli e grandi gesti, di azioni sotto traccia oppure collettive, di modificazioni appena accennate che però hanno scavato cunicoli e tunnel e vie d’uscita per la convivenza.
Sono donne a mostrare come si possa fare politica in altro modo. “Ho dato tutta me stessa per essere primo ministro e questo mi è costato molto. Non ho più energia per affrontare i prossimi quattro anni” è stata la spiegazione di Jacinda Ardern per le dimissioni dal posto di primo ministro neozelandese. Ardern ha avuto una bambina durante il suo mandato; all’Assemblea generale dell‘Onu si è presentata con la figlia di tre mesi. Civilizzare il ruolo del dirigente politico; scartare i codici virili, la leadership aggressiva di Margaret Thatcher; mostrarsi empatica, all’ascolto dei propri cittadini (è successo in Nuova Zelanda durante la pandemia); chiudere in leggerezza una fase politica (nella quale la popolarità di Ardern stava diminuendo).
Anche la premier scozzese Nicola Sturgeon nell’annunciare le dimissioni, si è augurata di poter “prendere finalmente un caffè al sole”, tornando anche alla sua famiglia. In realtà, la sua richiesta di un secondo referendum sulla indipendenza della Scozia dal Regno Unito ha trovato molti ostacoli. Quanto alla proposta di permettere ai sedicenni di cambiare genere legalmente con l’autocertificazione e senza bisogno di una diagnosi medica di disforia di genere è parsa eccessiva a molti scozzesi nonché alle femministe, a partire dalla scrittrice JK Rowling: gli spazi riservati alle donne, dalle carceri alle case antiviolenza, potrebbero essere invasi da uomini che in pochi mesi si proclamerebbero donne.
In Italia, paese dalle incrostazioni patriarcali, i cambiamenti sono sotto gli occhi di tutti: una “prima” presidente del Consiglio (anche se vuole essere chiamata il presidente), una “prima” presidente della Corte della Corte di Cassazione (Margherita Cassano), una “prima” segretaria alla guida del Pd.
Se il femminismo ha aperto la strada, se Giorgia Meloni ha dimostrato che una donna “può”, Elly Schlein, per il fatto di essere “una donna”, una “persona lgbtqI+ pare aver ribaltato il maschilismo del Pd.
Definita espressione “del veltronismo kennediano” (Lanfranco Turci), lontana anni-luce dalla cultura comunista, ultima possibilità per un partito arrivato alle primarie boccheggiante, con dieci segretari alle spalle in quindici anni, rappresenta, almeno nella testa di molti tra quanti l’hanno votata alle primarie, l’opposizione possibile a Giorgia Meloni. “Un investimento” simbolico, secondo Antonio Floridia. D’altronde, chi l’ha votata puntava su una donna perché un uomo, un dirigente del Pd, sarebbe comunque apparso “colpevole” di aver condotto il Partito democratico al suo declino.
Resta un interrogativo: quando la casa brucia, si chiamano i pompieri e quando il presente rischia di travolgere una storia, per una sorta di riflesso condizionato ci si rivolge a una donna. Solo che Elly Schlein e le sue sorelle hanno smesso da tempo di prestare assistenza. Dunque la palla torna agli uomini del Pd.