Pubblicato sul manifesto il 22 novembre 2022 .
Venerdì prossimo (25 novembre) è la giornata contro la violenza sulle donne. Un’occasione per riflettere meglio, soprattutto noi uomini, sull’uso delle parole che pronunciamo, se le pronunciamo, quando affrontiamo questo argomento. “Di violenza sulle donne si parla molto”, scrivono due giornaliste del Sole 24 ore, Chiara Di Cristofaro e Simona Rossitto, in un libro appena uscito con la loro testata: Ho detto no. Come uscire dalla violenza di genere. Enumerando tv, convegni, libri “e, da ultimo anche campagne elettorali. L’attenzione politica e mediatica da alcuni anni è alta”. Nel mondo – stando alle statistiche – circa un terzo della popolazione femminile subisce violenze, e in Italia ogni tre giorni una donna è vittima di femminicidio: “….nonostante l’accresciuta sensibilità, i numeri non migliorano”.
Per ragionare sul perché e su come reagire consiglio di leggere il libro, i cui capitoli partono da vere storie di violenza per concentrarsi sugli aspetti comportamentali, le norme e la loro applicazione, il linguaggio nei contesti privati e pubblici, i dati disponibili, e infine sul ruolo e le scelte di chi agisce la violenza, noi maschi.
Mi limito a alcuni aspetti.
Il primo è il fenomeno della “vittimizzazione secondaria”, me ne sono occupato con altri amici della rete di Maschile plurale nel progetto europeo “Never Again”. Un percorso, molto ricco, di formazione ideato dall’Università campana Vanvitelli con l’associazione Dire (Donne in rete contro la violenza), gestito dal gruppo Prodos, con il partenariato anche del Sole 24 ore e del gruppo teatrale M.A.S.C. (Movimento Artistico Socio Culturale), rivolto a magistrati, avvocati, forze dell’ordine e giornalisti.
Al centro c’è l’uso delle parole. Quelle che pronuncia un magistrato (“Come mai si è decisa a denunciare solo adesso?”), un poliziotto (“Ma è sicura di voler inguaiare il padre dei suoi figli?”), un giornalista (“Ha ucciso per troppo amore”). Quelle della legge, da interpretare, e delle sentenze, che spesso ripetono stereotipi e pregiudizi che fanno della vittima una complice.
Questo uso delle parole produce nuova violenza su chi già l’ha subita, e contribuisce a demotivare le donne a reagire. In due giornate di discussione che hanno concluso il progetto biennale di cui ho accennato, ho ascoltato Nunzia Brancati, della Polizia di Stato, parlare delle “stratificazioni culturali ataviche” che fanno della famiglia il teatro di queste violenze, e l’avvocata della rete Dire Elena Biagioni ricordare che solo il 30 per cento delle violenze emerge perché la donna trova il coraggio di denunciare.
Le docenti universitarie Teresa Bene e Roberta Catalano hanno fatto un bilancio del progetto, di fronte a un’aula gremita di studenti e studentesse di Legge. Un migliaio di persone raggiunte dalla formazione on-line, in numerosi seminari in presenza, e di nuovo in rete, alcune decine di casi-studio approfonditi, una rappresentazione teatrale sugli stereotipi della “vittimizzazione secondaria” di grande effetto (interpretata da Silvia Vallerani, Martina Zuccarello e David Mastinu su testo di Giulia Corradi). Un sito ricco di informazioni e di strumenti da utilizzare: https://www.vittimizzazionesecondaria.it
Ho visto, partecipando a un webinar rivolto al giornalismo, che la presenza maschile era più numerosa che in altre simili occasioni. Qualcosa comincia a cambiare?
Per me è stata una buona esperienza agire in una situazione con “più donne che uomini”. Abituarsi a stare “in minoranza” e riconoscere l’autorità delle donne con cui lavoriamo può essere è un buon inizio per superare la cultura maschilista. Che ci pesa addosso e che alimenta anche gli esiti violenti.