GLI ORSI NON ESISTONO – Film di Jafar Panahi. Con Jafar Panahi, Naser Hashemi, Vahid Mobaseri, Bakhtiar Panjei, Mina Kavani, Iran 2022.
L’Iran è tristemente tornato alla ribalta in questi giorni per le vaste e tragiche proteste in favore dell’emancipazione delle donne. Il regime è sotto inchiesta in occidente per aver ucciso una donna che ha avuto il torto di aver coperto male i capelli con il velo ed altre per aver manifestato in suo favore. Ci sono state altre vittime, le manifestazioni proseguono.
Intervistato, così dichiara Mostafa, un giovane di 25 anni che vive con sua madre e i suoi fratelli in una zona a nord di Teheran: «Se potessi usare una sola parola per descrivere il mio stato d’animo sceglierei confusione. A volte vorrei soltanto andarmene. Partire come già hanno fatto molti dei miei amici. Ma non ce la faccio a mollare la mia famiglia. Non ora, anche se mi sento d’esplodere qui. È come se m’avessero rubato la leggerezza di essere giovane.»
Il film “Gli orsi non esistono”, che ha ottenuto un premio speciale della giuria all’ultimo Festival del Cinema di Venezia, apparentemente è meno politicizzato di quello che ci si può aspettare, ma più sociologico – anche se le due cose sono strettamente connesse.
Il regista Jafar Panahi da circa dieci anni è confinato nel suo Stato in una sorta di “arresti domiciliari”; questo è l’ultimo film che ha fatto prima di essere arrestato lo scorso luglio (gli hanno dato sei anni di carcere) e di lui non ci sono notizie recenti. In “Gli orsi non esistono” ci mostra una comunità che vive di tradizioni al limite delle superstizioni e di usanze tribali, specialmente nei confronti delle donne, rimaste intatte per secoli, come ad esempio il taglio del cordone ombelicale dedicato al futuro sposo. Lo stesso titolo del film viene proprio dal voler demistificare una credenza popolare che ci fossero gli orsi in una certa strada urbana.
Questo film mostra anche una certa contrapposizione tra tecnologia avanzata (computer, cellulari, macchine fotografiche digitali) e arretrate abitudini sociali, come era stato già messo in evidenza nel precedente “Tre volti” del 2018. Lì, sempre in una piccola comunità al confine con la Turchia, il regista fa dire a uno degli abitanti: «Ci sono più parabole che persone”.
“Gli orsi non esistono” può essere considerato un film sulla ricerca della libertà e sulla fuga da gabbie claustrofobiche fatte di norme, di leggi e consuetudini indiscutibili. È anche un percorso di myse en abyme che garantisce più piani di osservazione del reale che mescola la finzione con la dolorosa esistenza. Panahi oltre a essere presente nel film, rappresenta anche lo sguardo (lo stesso cinema?) e la voce narrativa fuori campo.
Due sono le coppie di cui il regista racconta le vicende. Una è quella dei coniugi di mezza età, vessata da dieci anni che, in una città della Turchia, cercano dei passaporti falsi per l’espatrio in Europa: sono il soggetto che Panahi-regista sta filmando (in linea con un certo cinema-verité). L’altra è una coppia di giovanissimi che per amore decidono di fuggire insieme dalla comunità che vorrebbe per la donna destini diversi.
Ma anche Panhai, a sua volta, è in fuga dalla sua Teheran, anche se temporaneamente, per essere più vicino alla sua troupe che sta girando in Turchia, proprio al confine con l’Iran. Dirige on line, chiuso in una stanza in affitto in questo piccolo villaggio di una comunità montana.
Splendida è la descrizione di questa società apparentemente accogliente ma retrograda, con il suo “sceriffo” che è una sorta di Salomone che ha cura di mantenere la pace e il rispetto della tradizione. Il paesaggio attorno è durissimo, aspro, arido, e l’agricoltura è in crisi. Suggestive sono anche le riprese amatoriali della festa del fidanzamento con il tradizionale lavaggio dei piedi nel fiume. La scena notturna di Panahi con i piedi sul confine con la Turchia e il suo tornare indietro, è di grande impatto simbolico.
Con questo film, infatti, il regista recluso stimola una riflessione sui confini: ovviamente quello del confine turco, ma anche il confine segnato dalla tradizione con il relativo rifiuto di adeguarsi ad una certa modernità, il confine tra normativa e sovversivismo e il confine tra ciò che è vero e ciò che è falso dietro la macchina da presa. Panahi utilizza la cinepresa a mano (che permetterà anche ad altri di girare), zoommate, pedinamento degli attori (come ad esempio la scena con il contrabbandiere). Lui segue le riprese dallo schermo del computer e dal telefono cellulare (quando c’è campo) creando in tal modo un’opera meta-cinematografica come faceva Abbas Kiarostami, di cui è stato aiuto regista.
In più occasioni Panahi sottolinea l’importanza del dialogo in alternativa alla violenza, lui stesso cerca di trovare una situazione pacifica con il Consiglio degli Anziani della comunità, quando gli chiedono di consegnare la foto della coppia clandestina, accusato di averla fotografato. Con giuramento pubblico sul Corano.
E come scrive Aldo Spiniello in Sentieri Selvaggi: «Per Panahi, l’importante è lottare, continuare a filmare, ovunque, in qualsiasi condizione, contro ogni imposizione. Continuare a contrabbandare le proprie immagini, facendole circolare anche nel modo più clandestino e rocambolesco…Nell’ultima inquadratura tira il freno a mano. Ma il motore è ancora acceso. Almeno fino al prossimo film».