Pubblicato sul manifesto il 28 giugno 2022.
Letizia Paolozzi ha ricordato su DeA (https://www.donnealtri.it/2022/06/il-no-allaborto-rimette-il-maschio-al-centro/) che ai tempi della mobilitazione e della discussione su quella che sarà la legge 194, un pezzo del femminismo italiano non amava parlare di “diritto all’aborto”, chiedeva la cancellazione del reato, e puntava al ribaltamento di relazioni sessuali ancora condizionate dai “bisogni” maschili.
In un testo di alcune donne del “collettivo femminista milanese di Via Cherubini” (1975) si legge tra l’altro: “La clandestinità dell’aborto è una vergogna degli uomini, i quali spedendoci negli ospedali ad abortire ufficialmente, si metteranno la coscienza in pace in modo definitivo. Si continuerà come prima e meglio di prima a fare all’amore nei modi che soddisfano le esigenze, fisiche, psicologiche, mentali degli uomini”. C’è la rivendicazione di una “sessualità non interamente orientata verso la fecondazione”, e l’indicazione di altri modi di vivere la relazione amorosa: “Il corpo della donna, la sua sessualità, il suo godere non esigono necessariamente quei modi e quelle forme di intimità (coito) che poi la fanno rimanere incinta”.
Oggi – spererei – questo approccio dovrebbe essere condiviso da molti maschi. Ma le discussioni sull’aborto sono ancora caratterizzate da un certo prudente silenzio maschile. Oppure da parole di solidarietà, come se il problema e la sua “dinamica” non riguardasse anche noi. Sul Corriere della sera ne ha scritto Paolo Giordano affermando che “il diritto all’aborto è il più fragile di tutti”, e solo alla fine del lungo articolo dice che una reazione alla sentenza della Corte americana dovrebbe riguardare anche la metà maschile della popolazione.
Tanto più che la decisione della maggioranza conservatrice dei giudici si inquadra bene in una reazione che vorrebbe restaurare un passato in cui la supremazia maschile non era messa in discussione. Ha il segno esplicito di una rivalsa patriarcale.
Paul Beatriz Preciado, intervistato sul manifesto domenica da Giansandro Merli, la definisce un movimento di controriforma con una matrice coloniale, capitalista e patriarcale. Ma sottolinea la forza della “rivoluzione” in atto alla quale si oppone: una rivoluzione per la “definizione della sovranità dei corpi” che riguarda non solo le donne ma anche gli uomini, come le persone gbltqi+ e il corpo stesso del pianeta aggredito da interessi economici predatori, con i corpi degli altri esseri viventi.
Preciado non rinuncia a una polemica con le femministe che pensano l’utero e il corpo femminile come qualcosa di naturale (ma chi sarebbero, poi?). Se sono di questo parere, aggiunge “mi spiace, ma non si può abortire”.
Ecco che nel discorso della massima radicalità sul rapporto tra corpo, desiderio, tecnologie, fa capolino una stravagante tendenza alla normatività. Alla fine Preciado invita a vedere, più che il rischio di un ritorno al passato, la potenza della rivoluzione in corso, giacchè la Corte americana prova a fermarla con le unghie. Essa invece è inarrestabile: ma la domanda più complessa riguarda “qual è il processo di organizzazione necessario a questa trasformazione rivoluzionaria”.
Scommettere sulla forza del cambiamento che è già per tanti versi avvenuto mi sembra giusto. Con un sospetto: istituire nessi troppo rigidi tra opinioni e norme e tra politica e organizzazione non ricorda da vicino certe procedure tipiche di una mente maschile, per così dire un po’attardata?
Come dicevano quelle femministe degli anni ’70, noi uomini dovremmo riuscire, sull’aborto e non solo, a “fare un lavoro politico diverso”.