Un pezzo del femminismo ha sempre evitato di parlare di “diritto all’aborto”. Non lo convinceva l’intromissione dello stato nel campo della sessualità, del volere o non volere diventare madre. E nemmeno la rimozione della responsabilità maschile nel causare un intervento violento sul corpo della donna. Sarebbe bastata la depenalizzazione. Quel pezzo di femminismo perse. Ma molte di noi, conoscendo le ambiguità, le incertezze, le contraddizioni del desiderio femminile rispetto alla nascita di un figlio, conservarono le loro riserve sul “diritto all’aborto”.
Il terremoto che ha colpito le donne americane mi ha ricordato quella discussione giacché il destino di tante è dipeso dalla Corte Suprema. E dal suo potere eccessivo nonché dalla sterzata conservatrice impressa da Donald Trump nominando un terzo dei nove giudici alla più alta giurisdizione degli Stati Uniti.
Nel 2020 muore a 87 anni il simbolo progressista, la giudice Ruth Bader Ginsburg rimpiazzata da Amy Coney Barrett, cattolica pro-life, madre di sette figli, sostenuta dalla destra religiosa.
In effetti, la lobby ultraconservatrice si è mossa efficacemente nel proporre i suoi nomi a Donald Trump il quale, d’altra parte, obbediva ai propri interessi elettorali.
Così, in quattro anni, complice la saldatura tra Paperoni e working class o respinti dalla globalizzazione, negli Usa si rovescia il rapporto di forza e la Corte sopprime in questi giorni il diritto all’aborto demandando ad ogni Stato la possibilità di adottare le sue misure e contromisure. Si teme che la prossima vittima saranno le unioni civili e la risposta, oggi, consiste nel difendere la pillola abortiva.
Offensiva reazionaria repubblicana, certo. Nonché impotenza dei democratici di fronte all’estrema destra religiosa che comincia a muoversi sul terreno antiabortista fin da subito, dalla sentenza Roe vs Wade del 1973, con una propaganda capillare, bussando alle porte, servendosi dei social, dei canali mediatici, partecipando alla vita delle comunità.
L’America è sempre più polarizzata. A farne le spese i ceti più poveri, le nere, le minoranze. Secondo il “New York Times” il 42 % di quante sono in età procreativa vive negli Stati dove verranno adottate interdizioni totali dell’aborto. In dodici di questi è stato vietato oltre le sei settimane, un periodo nel quale le donne spesso non sanno di essere in attesa di un figlio. In altri il divieto comprende anche i casi di stupro e di incesto. Spostarsi dagli Stati antiabortisti sarà una delle possibilità per quelle donne che se lo possono permettere. Secondo il Guttmacher Institute, delle 862.320 che hanno abortito negli Stati Uniti nel 2017, i tre quarti erano povere o con un basso reddito.
Ma una certa idea di ordine che ristabilisce la centralità del maschile sta dilagando: riguarda le democrazie contemporanee; riprende slancio nelle autocrazie come nella Federazione russa di Putin. Contro il sesso femminile e contro il mondo omosessuale (sappiamo che la Polonia, dove l’aborto è vietato in molti casi, intende registrare le gravidanze attraverso una schedatura dei medici; abbiamo ascoltato le parole di Putin contro “la degenerazione” occidentali; abbiamo visto in televisione lo scatenamento della violenza a Oslo contro un locale gay).
Il populismo dilaga non solo normativamente. Bisognerà disobbedire. Intanto vale la replica di tante e tanti che pensano di finirla con i rapporti eterosessuali quando inclinano pericolosamente da una parte sola, quella maschile.