C’è un’altra resistenza nella guerra di aggressione dei russi all’Ucraina: è quella delle donne che, coraggiosamente, insieme ad altri, sfidano Vladimir Putin. Madri dei soldati mandati a invadere addirittura a loro insaputa, manifestanti come l’ottantenne Yelena Osipova, sopravvissuta all’assedio di Leningrado, che camminano con i cartelli lungo i marciapiedi (se scendono per strada vengono arrestate), femministe (su “Jacobin” è stato pubblicato l’appello “Fermare l’aggressione di Putin”).
Bisognerebbe, remando contro la militarizzazione della parola pubblica, sempre più grondante di retorica (avete notate lo spreco di “divani” su cui i pacifisti sarebbero “mollemente” adagiati?) e dell’ingiunzione a fare una scelta di campo, per non dimenticare Grozny, Aleppo, guardare con occhio diverso alle tante russe che non vogliono la guerra e alle ucraine che premono ai confini con la Polonia, che stanno arrivando a Berlino, in Finlandia, in Italia.
Tenendo per mano i bambini, abbandonano la casa, le relazioni perché, come dice Christa Wolf, “tra uccidere e morire c’è una terza via, vivere”.
I maschi sopra ai diciotto anni in Ucraina sono soggetti alla chiamata alle armi mentre le donne si sono rifiutate di stare a quella legge voluta da Zelensky. I maschi non possono andare via. Non vogliono. Difendono le città da Kiev a Mariupol’. Ma Zelensky sta salvando il suo popolo quando chiede la no-fly zone?
In questa guerra brutale “diversamente dal potere, che si fonda sul consenso del popolo, della corte, delle tradizioni, delle autorità, e diversamente dalla forza, che è violenza governata dal potere, la violenza si fonda esclusivamente sugli strumenti” scrive James Hillman (“Un terribile amore per la guerra” Adelphi 2004 trad. di Adriana Bottini).
E gli strumenti portano morte; per resistere, agli ucraini vengono mandate per la prima volta dall’ Europa e dall’Italia, armi letali. È dubbio che servano a fronteggiare lo squilibrio delle forze: piuttosto, prolungheranno il carnaio. E poi, si domandava il generale Fabio Mini, chi verificherà che finiscano nelle mani giuste?
Certo, in questo clima di eccitamento bellico, se incalza il bisogno di eroi, si infilano nel calderone dei reprobi il direttore d’orchestra amico di Putin, l’atleta paraolimpico, Dostoevskij, i film, le mostre e i gatti siberiani. Se continua così, anche Tolstoj dovrà scegliere tra la guerra e la pace.
Siamo in un clima dove non c’è spazio per le distinzioni (Nadia Urbinati sul “Domani”). Anzi, distinguere equivale a essere equidistanti.
In effetti, in questa fase stare nelle piazze per la pace, ascoltare il Papa, citare la trattativa, il compromesso, l’intervento dell’Onu, l’interposizione non appassiona. Dicono: Siamo realisti, facciamo la guerra!
Nel Manifesto della Magnolia (Casa internazionale delle donne) si mette l’accento sulle contiguità tra virus e guerra. Il linguaggio è condizionato dagli stessi toni rigidi, marziali, di paura (sarà la Terza guerra mondiale, sarà il conflitto nucleare?).
Anche nella scelta dei mezzi per rispondere alla “operazione speciale” della Russia, si coglie qualcosa di simile alle invocazioni della cura durante la pandemia, seguite dalla fissità e dall’incuria delle risposte.
Pure la ricerca del nemico era coltivata nella pandemia. Ieri i no-vax, oggi quelli che non si schierano.
Le donne, le tante ucraine che scelgono di venire via dal loro paese, evitano questa tenaglia. Il sesso femminile sottrae il suo corpo al conflitto, formula una sua risposta alla risposta obbligata: gli aggrediti devono difendersi, devono resistere.
È un atto di diserzione, di fuga oppure un gesto di cura della vita capace di indebolire quella che Virginia Wolf (a proposito, bella iniziativa la lettura collettiva alla libreria romana Tuba e a quella di Padova, Librati, del saggio della scrittrice “Pensieri di pace durante un raid aereo“) chiamava “l’invenzione virile” della guerra, della violenza, della morte?