ONE SECOND – Film di Zhang Yimou. Con Zhang Yi, Fan Wei, Liu Haocun. Cina 2020.
“One Second” è un film sul cinema. È una fiaba delicata e triste sullo sfondo della Cina rurale di Mao. Siamo nella prima metà degli anni ’70 in un paesino miserabile circondato da un panorama sabbioso desertico, nel Secondo Distretto. Tante sono le biciclette, mezzo di trasporto utilizzato all’epoca, ormai dimenticato nella Cina d’oggi.
Zhang Yimou è un raffinato regista e sceneggiatore cinese considerato tra i più importanti di quella che è stata chiamata “quinta generazione”. In passato i suoi film sono stati candidati agli Oscar come miglior film straniero, per ben tre volte: “Ju Dou” del 1990, “Lanterne rosse” del 1991 e “Hero” del 2002, del genere Wuxiapian (film in Cinemascope di arti marziali in costume girati in mandarino).
Il cinema, dunque, è evasione, il cinema è spettacolo, ma è anche propaganda, è comunicazione e in tutti i casi provoca grandi emozioni negli spettatori della sala cinematografica di una volta. Zhang Yimou riprende qui un po’ ciò che Giuseppe Tornatore aveva sostenuto nel film “Nuovo cinema paradiso” del 1988: la forza della magia di una sala buia e di un fascio di luce contro una parete bianca.
Zhang (Yi Zhang) è un carcerato fuggito da una prigione statale (un campo di lavoro dove era stato rinchiuso per rissa) che, dopo aver attraversato il deserto, si ferma davanti a una bicicletta parcheggiata. È del proiezionista, detto Signor Cinema (Fan Wei), entrato nel bar a bere, che ha lasciato nella sacca a cavallo le bobine del film di propaganda “Heroic sons and daughters” del 1964. Tutto insieme appare Liu (Haocun Liu), una povera ragazzina orfana con i capelli arruffati, che ruba una bobina. Metà del film è incentrato sulla rincorsa di Zhang per riprendersi la bobina e di una serie di disavventure che incontrerà. L’inseguimento tra i due diventa spettacolare sia nello spazio desertico sia nel villaggio, in particolare, nella sala adibita a cinema dove si deve proiettare il filmato.
Il Signor Cinema, Liu e Zhang sono tutti e tre interessati a entrare in possesso di quella pellicola per tre differenti ragioni: Zhang ha saputo che nel cinegiornale (il numero 22) collegato al film appare sua figlia che non vede da sei anni, Liu, invece, ha bisogno della celluloide per ricomporre un paralume distrutto dal fratellino e il Signor Cinema per ottenere l’accondiscendenza del Partito nello svolgere al meglio il suo mestiere di proiezionista.
Belli sono gli spazi in campo lungo e fantastici i primi piani di ogni minimo dettaglio: manovella, telone, megafoni dietro lo schermo e fotogrammi. Splendida è la scena della ripulitura, da parte degli spettatori, di centinaia metri di rulli finiti nella polvere per incuria del figlio del Signor Cinema.
Così racconta il regista in una intervista: «Questo film mi tocca da vicino, è un ricordo della mia gioventù. La storia è inventata, ma molti dei dettagli sono tratti dalla mia esperienza personale. Ho lavorato come operaio in una fabbrica tessile di cotone a Shaanxi nel 1973. A quel tempo, il mio reddito non era alto e le condizioni molto difficili, così ho risparmiato duramente per alcuni anni e ho comprato un’attrezzatura rudimentale per imparare le tecniche. Come si pulisce la pellicola? Come si può prevenire la formazione di calcare? Come si ottiene l’acqua distillata semplice? Come si accelera l’asciugatura? Come si apre un groviglio di pellicola? Questi dettagli che mostro arrivano dalla mia esperienza, sono mie “invenzioni”».
Tutto ciò è accompagnato da un sottotesto politico di ruoli e di identità sociali che sono definiti dalla scala gerarchica della rivoluzione maoista. Infatti, erano state chieste parecchie modifiche censorie e il film è stato tagliato di un minuto. Gli attori sono bravissimi ed essendo i dialoghi piuttosto scarni, sembra di ritornare all’espressività del cinema muto.