Da Mosca a Murmansk il viaggio è lunghissimo. Due giorni, due notti, tre cambi di treno. Lo “Scompartimento n.6” dove un uomo e una donna si insultano, sognano, si ubriacano, mangiano, disegnano, si attraggono e si respingono, è una gabbia claustrofobica, un luogo dal quale i due vorrebbero fuggire, divisi come sono dalla collocazione sociale, dai desideri, dalle mete che si propongono.
La macchina da presa segue le espressioni diffidenti della studentessa di archeologia finlandese che ha intrapreso il suo pellegrinaggio per vedere le incisioni sulla roccia dei popoli primitivi, i petroglifi. E quelle interrogative del giovane russo che lavora nelle miniere della penisola di Kola, vicino a Murmansk.
Lui (Ljoha) non riesce ricordare il termine petroglifi; lo sillaba schifato. Lei (Laura) sceglie il registro sarcastico per mettere distanza. Lui chiede: “Come si dice Ti amo in filandese?” lei risponde “Haista vittu… vaffanc…” convincendolo che questa è la traduzione.
Tuttavia, le cose non procedono mai lungo una linea retta come avete letto nella recensione su DeA di Ghisi Grutter al film del filandese Juho Kuosmanen.
L’imprevisto sta sempre acquattato in un angolo scuro. E sull’imprevisto voglio tornare; sulle previsioni che tradiscono chi ritiene di avere “tutto sotto controllo”. In fondo, mai come in questo periodo di Covid il contagio ci ha rovesciato addosso le sue smentite e se qualcuno riteneva di poter camminare lungo una linea ben tracciata, adesso scopre con orrore che dalle sue mani il controllo è scivolato in quelle dell’Oms, delle varie commissioni di scienziati, medici, esperti, poggiando sulle app, QR Code. E compagnia cantando.
In fondo, l’inatteso quando meno te l’aspetti, ti cambia il corso della vita. Anche nella Russia degli anni Novanta, al tempo in cui Juho Kuosmanen ha collocato il suo road movie.
Intorno all’incontro male assortito tra una ragazza, separata dalla sua amata rimasta a Mosca per lavoro, e il minatore dai modi grossolani e sbrigativi, anzi, per essere precisi, intorno al tavolino dello scompartimento ridotto a un porcile tra vodka, cipolle, salamini, queste due esistenze sono scosse da soprassalto.
Il minatore che asserisce di disprezzare le donne si rivela capace di gesti teneri e gentili; la studentessa attratta dagli intellettuali moscoviti, dai salotti, scopre una disponibilità, un’apertura che lei stessa non conosceva.
Girato in pellicola, per rendere la profondità dell’immagine e poi trasferito in digitale (conoscete per caso una sala cinematografica che proietti ancora la pellicola?) il film si srotola intorno a queste persone: se lui le vuole saltare addosso a lei fa repulsione, e se lei confessa la sua delusione amorosa, la sua delusione sociale, lui osserva muto la distanza di classe tra di loro.
Ma le cose si ribaltano e lentamente la diffidenza si trasforma in fiducia. Ciò che coinvolge i due non è amore, non è sesso, non ha lieto fine. Ma la descrizione di un sentimento che riporta alla leggerezza dell’infanzia, alla lievità del gioco, alla potenza con la quale due corpi si incontrano e perdono peso, si liberano dei problemi, si tolgono la maschera della serietà.
Per raggiungere questo stato di grazia (che è quello descritto realisticamente dal regista) occorre lasciarsi andare al cambiamento; al rispetto dei bisogni altrui; alla curiosità di ascoltare, di fidarsi e affidarsi. Insomma, alla necessità di scoprire la forza di una relazione.
Che significa andare oltre l’esteriorità. Succede vicino al circolo polare artico tra neve e nebbia, tra figure di vecchie sapienti e alcoolisti generosi. Eppure si tratta di un desiderio umano, improvviso e imprevisto ma sperimentato a ogni latitudine.