“Un lavoro realmente libero, ad esempio il comporre musica, è al tempo stesso la cosa maledettamente più seria di questo mondo, lo sforzo più intenso che ci sia”.
Così Marx, nei “Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica”, dove poi afferma che un tale lavoro liberato deve avere un carattere universale e scientifico, essere un’attività che “regola tutte le forze della natura”.
La citazione vale a evocare una tematica che mi sembra ancora attuale: quanto del nostro desiderio di libertà e di felicità passa attraverso il lavoro, e le sue relazioni con le nostre vite e con il mondo? Quanto pesa l’”alienazione” del lavoro nelle tante possibili accezioni contemporanee?
Ma non intendo addentrarmi in questa indagine di carattere analitico e teorico. Voglio invece provare a indirizzare un messaggio principale a me stesso e agli uomini della sinistra e del sindacato:
le analisi del femminismo che discutiamo oggi da un lato indicano il lavoro come fondamento di un’azione politica per il cambiamento, ma contemporaneamente pongono l’esigenza di ripensare alla radice la nostra idea del lavoro.
Penso che questo costituisca una nuova occasione politica per la sinistra. Un’occasione da non perdere, anche considerando il fatto che già una volta, alla fine degli anni ’80 e poi durante la “svolta” che mise fine al Pci, l’incapacità della sinistra di cogliere il diverso punto di vista offerto dal femminismo ha costituito una perdita grave, un motivo profondo di distacco dalla realtà, che pesa molto negativamente tuttora.
(Lo dico anche autocriticamente: amiche che oggi sono qui presentarono allora un documento congressuale con al centro il tema della libertà al quale, sbagliando, non aderii).
Si tratta, credo, di spingerci oltre le elaborazioni parziali del pensiero maschile sul lavoro che sono state prodotte negli ultimi decenni: la fine del lavoro, il lavoro cognitivo e immateriale, il lavoro autonomo di seconda generazione, la condizione precaria, la moltitudine, il nostalgici ritorni alla idea di “classe operaia”, oppure l’idea moderata di un interesse condiviso tra imprenditori e lavoratori.
Ci sono pezzi importanti di verità in ognuno di questi tentativi di trovare nuovi assi interpretativi del ruolo e della condizione del lavoro, ma non si vede – credo – la trasformazione principale.
Se guardiamo alla realtà di fatto e – come non si stanca di ripeterci Aldo Tortorella – all’esigenza di un ripensamento dei fondamenti della nostra cultura politica, dobbiamo cogliere come mutamento principale la rottura della separazione tra tempo del lavoro e della produzione e tempo della vita e della riproduzione: un fatto oggettivo, ma anche e forse soprattutto un dato soggettivo, che si radica nel desiderio femminile di lavorare nella produzione e nel mercato e di non rinunciare alle relazioni e agli affetti, al cosiddetto “lavoro di cura”.
A questo si lega il fatto che finalmente – anche per merito di Ars (ricordo l’idea di lanciare un movimento nel nome del Lavoro e della Libertà che risale a anni fa, quando segretario della Fiom era Claudio Sabatini) – nella sinistra è stata riammessa la parola Libertà. Ma se la pronunciamo oggi dobbiamo sapere che questa parola significa soprattutto riconoscere che cosa cambia per tutti con l’avvento della libertà femminile.
In un recente articolo, rivolto anche alla Fiom, Sergio Bologna esortava – provocatoriamente – a concentrarsi sulla “banalità del lavoro”, osservando per esempio la dissipazione di tante energie originata dal fatto che i giovani colti che escono dalle università non trovano adeguato impiego – una “bolla formativa” – e che non c’è il necessario rispetto per la dignità di chi lavora.
Ma che cosa so io, direttamente, del lavoro?
Ho avuto la grande fortuna di fare per tanti anni un lavoro che non consideravo alienante e alienato, scrivendo per un giornale del tutto particolare come l’Unità, e pensando di svolgere così anche una attività politica, sia pure professionalmente mediata.
Una condizione ideale dunque, nel rapporto – potrei dire citando Arendt – tra lavoro, opera, azione nella “polis”.
Quella dimensione politica a un certo punto è venuta completamente meno. Resta il fatto che per me la professione giornalistica ha comunque un contenuto etico e politico che deve essere ripensato. Oggi assistiamo a un paradosso: grazie al web e alle tecnologie moderne, alla diffusione globale della cultura, le informazioni si moltiplicano e sono alla portata di molte più persone, ma il linguaggio dei media tradizionali si impoverisce e diventa volgare, aggravando la loro crisi. Mentre solo una nuova e superiore qualità del prodotto, e quindi della competenza di chi lo elabora, potrebbe riaprire un circolo virtuoso con i pubblici.
A partire dal 2000 ho cambiato lavoro. Sempre occupandomi di comunicazione politica, ma operando nella amministrazione pubblica. Qui ho visto la forza di una presenza femminile molto diffusa e nettamente maggioritaria al livello impiegatizio, ben presente tra i quadri dirigenti, nettamente minoritaria al livello degli esecutivi politici.
E modelli diversi di comportamento: attenzione femminile al senso e alla qualità del lavoro, ma difesa dei tempi da dedicare ai figli, oppure adesione ai modelli maschili (competitività, orari prolungati, logiche di potere) per fare carriera, con diverse contraddizioni. Mi limito a osservare quanto sia poco sensata una politica che dice di voler migliorare l’efficienza della amministrazione pubblica ma che nulla sembra vedere di questa realtà concreta e conflittuale.
Quanto al mio rapporto con il sindacato – a parte le vicende del sindacalismo tra i giornalisti – ricordo una intensa esperienza negli anni ’80, a Genova, teatro di una drammatica deindustrializzazione.
Un caro amico della Fiom e poi dirigente della Cgil, Franco Sartori, molto popolare nel Ponente industriale investito dalla crisi, tentò di uscire dalla difensiva, di contrattaccare oltrepassando le dimensioni della fabbrica e della categoria, aprendo una contrattazione territoriale, incontrando il movimento delle donne di Cornigliano, che si battevano per l’ambiente contro l’inquinamento prodotto dall’Italsider ma non volevano penalizzare il lavoro operaio (erano per lo più mogli, parenti, amiche dei siderurgici).
Una battaglia che ha contribuito a alcuni risultati nel tempo: oggi l’ex Italsider, l’Ilva, è più piccola e più pulita, la città ha guadagnato spazi e aria pulita, in una storica villa settecentesca che era stata inglobata dalla fabbrica opera un distretto di piccole aziende che producono film e video, c’è la sede della Filmcommission regionale.
Ma quella strategia aperta al territorio, all’ambiente e al protagonismo femminile, in sostanza a un nuovo desiderio, è stata sconfitta nel sindacato.
Mi chiedo se molte resistenze maschili, a sinistra, a vedere la nuova realtà delle vite al lavoro di donne e uomini non siano riferibili al grande vuoto lasciato dal tramonto dell’idea della “coscienza di classe” modellata sulla figura sociale dell’operaio industriale maschio. Un’idea forte, perché portatrice di una visione comunitaria universale e di una realistica declinazione del conflitto tra lavoro e capitale. Ma tuttavia un’idea parziale.
Ora c’è la libertà femminile. La rottura, di tempo e di luogo, della separazione tra vita riproduttiva – lavoro di cura, e lavoro produttivo – prodotto. La stessa dinamica del conflitto e del riconoscimento non si esaurisce nel classico rapporto tra “servo” e “padrone”, ma passa attraverso la relazione e la differenza tra uomo e donna non solo nella sfera privata ma anche in quella pubblica.
Torno all’analisi della “banalità” del lavoro, raccogliendo qualche spunto dalle persone più giovani che ho vicino.
Trentenni che studiano e che lavorano, in modo precario naturalmente. Che rifiutano l’idea di una vita prevalentemente dedicata a un solo scopo. Che sono consapevoli delle ingiustizie e delle irrazionalità secondo cui è oggi organizzata tanta parte del lavoro (i “call center”, un “terziario” più al servizio delle aziende e della loro opacità che degli utenti e clienti. Oppure le scarse opportunità e le logiche “baronali” che offre il mondo accademico), ma stentano a trovare forme di elaborazione e di reazione collettive. Mi è stato detto: a condizioni economiche accettabili meglio fare la cameriera (la battuta nel film “Boris”: in Italia la ristorazione è l’unica cosa che funziona) o lo spazzino. Almeno è chiaro che sono cose utili.
Dunque resta una tensione al senso del “valore d’uso” che dovrebbero rappresentare prodotti e servizi, il desiderio di una vita piena, con al centro lo scambio relazionale, sia nel mondo del pubblico e del lavoro, sia nella sfera “privata”.
Ma esistono le “condizioni” per un “contrattacco” capace di far leva su questa dimensione del desiderio dei soggetti?
O la forza del comando del capitale globalizzato inchioda chi ha meno potere sulla difensiva?
Siamo testimoni, nel mondo, di reazioni e rivolte – forse rivoluzioni? – impreviste, impensate. E’ stata anche questo la rottura prodotta dai voti operai a Pomigliano e Mirafiori. Maurizio Landini ha detto giustamente: una cosa inattesa prodotta dalle persone, non da una organizzazione: per un attimo sono tornati anche nel mondo dei media gli operai in carne e ossa, le loro mogli che chiedevano a Marchionne di venire a provare i turni alla catena, i loro figli che erano aiutati dai nonni per una breve vacanza al mare.
Il coraggio di reagire al ricatto non per un sole dell’avvenire, ma per la dignità e il senso di sé dell’oggi, per una vita decente subito.
Ricordo un antico scritto di Lea Melandri, che invitava la sinistra e non fare dell’operaio un feticcio ideologico, ma di riconoscere i suoi desideri e la sua umanità fin nei soprammobili un po’ kitsch del suo tinello.
Qualcosa si muove anche tra gli studenti, il mondo del lavoro precario e autonomo.
Vorrei dire che la confusione è grande sotto il cielo, la situazione è eccellente. Se la politica, soprattutto a sinistra, saprà superare il suo malumore e malamore, appassionandosi ai cambiamenti davvero “epocali” che stiamo vivendo. Indignarsi non basta, ce lo ha ricordato Ingrao. Bisogna fare leva su ciò che c’è di positivo.
Dal femminismo italiano – penso al “sottosopra” “Immagina che il lavoro”, e a quello precedente, “E’ accaduto non per caso” – viene un insegnamento prezioso. Il desiderio va riconosciuto e nominato nell’oggi delle nostre relazioni. Il mercato, come luogo di scambio, non va eliminato o demonizzato, ma trasformato portandoci sentimenti e passioni, non solo lo scambio monetario, e combattendo le logiche strumentali e di potere.
Non si tratta dunque di negare il conflitto, e la sua durezza, ma di tentarne declinazioni diverse, più aderenti alla ricchezza delle nostre vite.
Per aiutare questa azione è necessario creare nuovi luoghi di scambio e di elaborazione. A Milano sta crescendo la proposta di una “Agorà del lavoro”, in cui possano ritrovarsi uomini e donne, gruppi che già operano su questi temi.
Chiudo con un’altra citazione di Marx, molto famosa: i filosofi – recita l’ultima tesi su Feuerbach – finora hanno interpretato il mondo, il punto è cambiarlo. Ma a parte il fatto che oggi è sicuramente necessaria una nuova reinterpretazione del mondo, sospetto che l’unico modo sensato di cambiarlo davvero sia quello di nominare il mutamento reale e il desiderio che lo spinge, trovare le nuove parole che ancora ci sfuggono.