Ariaferma – film di Leonardo Di Costanzo. Con Toni Servillo, Silvio Orlando, Roberto de Francesco, Fabrizio Ferracani, alcuni ex detenuti, Italia, 2021.
Rimanda all’ “oggi non verrà, verrà domani” di Aspettando Godot il continuo sgocciolare dell’attesa in un luogo immaginario che è poi il carcere dismesso di San Sebastiano di Sassari, trasformato in set cinematografico.
Qui Leonardo Di Costanzo (L’intervallo, L’intrusa) ha girato Ariaferma. Per raccontare cosa accade in una delle tante prigioni italiane, tutte eguali nella loro separazione dal mondo, nella loro invisibilità, dove la gerarchia e l’autorità spaccano a metà sorvegliati e sorveglianti.
Fino a quando pochi poliziotti e dodici detenuti (dall’accento sardi e campani) si ritrovano insieme fino al trasferimento rimandato per intoppi burocratici ma che “potrà avvenire anche domani”. Cosi rispondono i poliziotti, pochi, senza mezzi, timorosi dell’esplodere di una rivolta sempre temuta.
I detenuti no, non ci pensano. Ma sono pronti allo sciopero della fame pur di ottenere cibo non precotto e per sanare quella che suppongono sia l’ennesima ingiustizia: il cibo delle guardie migliore del loro.
I detenuti vengono radunati due a due nelle celle intorno a uno spazio simbolicamente analogo alla forma del panottico. Ma in Ariaferma dalle celle i sorvegliati possono guardare chi li sorveglia. E lo spazio centrale si traduce nel luogo dell’incontro e dell’indistinzione: poliziotti e detenuti seduti allo stesso tavolo; le gerarchie cancellate o perlomeno sospese.
L’ispettore Gargiulo (Toni Servillo) e Lagioia (Silvio Orlando), legato – si dice – alla criminalità organizzata, nello spazio della grande cucina, nei corridoi infiniti del carcere alla ricerca di un fuggitivo, vengono sospinti a scambiarsi i ruoli.
Ma hanno davvero qualcosa in comune Gargiulo e Lagioia? Certo, li lega la condizione di prigionieri di un penitenziario dal quale gli è impossibile separarsi; siedono alla stessa tavola mentre il regolamento si opporrebbe e hanno le stesse origini contadine. Però le loro scelte sono state opposte. Ciò che avviene, nel carcere immaginario, è la tessitura di un reciproco rispetto.
Non succede nella realtà. Eppure, guardando il film, viene in mente il tempo sospeso dell’esilio e del lockdown. Quando il rapporto tra restringimento della libertà e stato d’emergenza ha significato per tanti, nelle carceri italiane, un aggravamento della pena. E le rivolte sono scoppiate per la sospensione dei colloqui con i famigliari, con gli avvocati; per la paura dei contagi, della vicinanza coatta che esponeva il corpo senza difesa, nella sua infinita vulnerabilità. “Il carcere rimanda a temi più generali; lo Stato, l’indifferenza, la colpa, il diritto. E la violenza” (Letizia Paolozzi Alberto Leiss, Il silenzio delle campane. I virus della violenza e la cura, Harpo editore). La violenza comunque in agguato, con i tredici morti tra i detenuti e le questioni poste da Ariaferma.