Napoli è troppo, per dirlo in lingua natìa è tanta: per chi ci è nat* e vive, per chi se né’è andat* come chi scrive, per chi la visita e la trova indimenticabile. E dunque liberare Napoli dal sue essere tanta, per poterla leggere con occhi mai nuovi ma almeno divers,i occorre mettersi al cannocchiale astronomico per individuare la costellazione che da sola non riesci sempre a scorgere dalle altre. Liberarsi dalla propria koinè è impossibile, occorre essere onesti: pensiamo di sapere tutto della nostra città, sempre un po’ più degli altri, siamo sornioni, commossi, a volte scettici e soprattutto ci sentiamo presuntuosamente superiori.
Per questi motivi e mille altri, l’operazione del numero della rivista The Passenger dedicata a Napoli, mantiene un rigore da metodo scientifico e prova a raccontare la città senza indulgere nei luoghi comuni, usandoli piuttosto come spunto etimologico per un viaggio ricco di informazioni di cui non sospettavamo a volte l’esistenza. Così mi smentisco subito se inizio col parlare dei numeri che compaiono nel risvolto di copertina della rivista e leggo a caso: il numero dei tifosi del Napoli nel mondo (32 milioni, di cui 7,2 negli USA), la città che che in Europa meglio gestisce i rifiuti dei cani (56/80), l’invenzione della forchetta a quattro rebbi. E con l’omaggio che la redazione grafica della rivista fa al “parolaio” Pasquale, che al mercato della Pignasecca scrive per gli ambulanti i cartellini con i prezzi di frutta e verdura. Ora Pasquale è diventato 4.0, perché un nuovo font porta il suo nome.
Tornando serie, il racconto della storia politica della città è affidato a Paolo Macry, che lega il gomitolo della vocazione monarchica a cui la cittadinanza non ha mai rinunciato attraverso i secoli, da Masaniello (brutta fine) ai Piemontesi, a Achille Lauro (l’originale), alle numerose “rinascite” cresciute, abortite o ereditate: Valenzi, Bassolino, fino a De Magistris. Una politica che si fa baluardo della protezione dei suoi abitanti, e che piuttosto rimane affidata nelle mani delle santità politeiste, laiche e cattoliche, da far impallidire quella indiana. Alla sua testa Gennaro, ovviamente, che scioglie puntualmente il suo sangue, ferma i terremoti e quando non lo fa allora è come la Pitia, c’è solo da aver paura; tant’è che quando si compie il miracolo i posti in prima fila sono riservati per quattro quinti alla nobiltà, e il resto ai rappresentanti del popolo. Sotto di lui santi e sante, madonne venerate lungo i vicoli, illuminate, fiorite che oggi se la battono con i murales delle nuove icone della devozione, come racconta Alessandra Coppola, i giovani minorenni arruolati dalla camorra e a volte uccisi dalla polizia a bruciapelo: di fronte alle loro icone le donne vengono a chiedere la grazia e le madri ne mostrano il profilo ai visitatori, come fosse una passeggiata museale. Il muro con funzione educativa, le pareti dove Jorit e seguaci dipingono murales che sono storie di cronaca e speranze nei vicoli del quartiere Sanità, così come a Piscinola e Melitello.
Maradona è dovunque.
Città metropolitana, sconfinatamente varia e allo stesso tempo socialmente rigorosamente divisa. Se avessi avuto il mare a vista avrei fatto l’attivista di sinistra, canta il trapper Luche, alludendo ai quartieri più chic di Napoli, Chiaia e Posillipo che affacciano sul mare; dietro, anzi sopra, la mezza costa e poi la collina del Vomero, che Cristiano di Majo racconta come quella più tranquilla, “normale”, dove i suoi abitanti “scendono giù” per indicare una distanza che è molto più ampia di quella fisica.
I vivi e i morti sempre insieme, Napoli pullula di cimiteri; quello di Poggioreale (Poggi Poggi è invece il soprannome dato all’omonimo e vicino carcere per distinguerli) è il più grande d’Europa, tanto che si può circolare in automobile. E poi quelli archeologicamente noti come le Fontanelle o le Anime del Purgatorio: infatti molto prima di Napoleone i Borboni posero fine alle fosse comuni in città, dove i corpi venivano lasciati “scolare” da Toledo verso il mare (ecco perché si augura a qualcuno il male dicendo puozz’ scula’). La musica come collante, la fusion della storia parteno-napoletana del dopo guerra, dei neri a metà come James Senese – a cui la madre un giorno portò a casa un disco di Coltrane dicendogli in napoletano guarda un po’ qua -, quel legame con l’altra parte dell’oceano che passa per Renato Carosone e Be Boop a Lula, fino al trap di J-Lord, ganese cresciuto a Casoria. E ancora la tv da Un posto al sole fino a quella di Gomorra e dei film di Martone, che hanno generato un prolifico indotto di tecnici e specialisti, ma che mantiene i vertici ancora a Roma (Peppe Fiore).
Napoli è troppa, che a volte te ne vai per questa o altre ragioni. E non ci torneresti mai a vivere, come racconta nei suoi fumetti Cristina Portolano, e però negli incontri con persone che non vede da una vita, esprime il disagio con la sua personaggia che abbassa gli occhi sulle scarpe mentre va via, magari attraversando le fermate della linea 1 della metropolitana, museo di avanguardie a cielo aperto. Oppure non ci vivi più ma ci torni spesso, prendi una sedia e ti siedi accanto a donna Rosa in mezzo a un vicolo per seguire la partita senza vederla e la commenta come farebbe un telecronista ma orientandosi solo con le voci e le esclamazioni che arrivano dalle finestre aperte, come con qualche similitudine fa ogni domenica il poeta Gianni Montieri, nonché rispettabile rubrichista de Il Napolista (non dobbiamo spiegare di cosa parla la rivista, ma ve ne stupireste). Il calcio, il tifo, santa Maradona, chiude l’osservatorio di The Passenger su Napoli, che riesce a scansare la retorica con abilità, aprire una finestra e far respirare la città, dalle sue grotte di tufo ai sei castelli che la abitano, a quelle periferie che non possono più dirsi tali, ai poli tecnologici sorti sulle ceneri dei colossi industriali di Bagnoli e San Giovanni a Teduccio dove ormai sono in tanti a scommettere per vincere.
The Passenger Napoli
Iperborea, Milano 2021
192 pagine, 19,50 euro
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