Questo articolo di Letizia Paolozzi è pubblicato sul n.6 della rivista “Oltre il capitale”, e parte da un testo del gruppo della femministe del mercoledì intitolato “Noi e il Covid-19”.
Se dovessi raccontare la nascita del testo “Noi e il Covid-19” a partire da te, metteresti al primo posto l’insofferenza (per zoom) e poi l’accettazione della piattaforma (nonostante il vuoto di sguardi, carezze; nonostante l’impossibilità di toccarsi e l’eros finito in malora; nonostante gli scatti di rabbia: Ora basta; me ne vado e non mi vedono più). Seguiranno paura, sconforto, accomodamento, obbedienza, ribellione.
Passa tutto questo e altro ancora in un gruppo di donne (Fulvia Bandoli, Maria Luisa Boccia, Elettra Deiana, Letizia Paolozzi, Bianca Po- meranzi, Stefania Vulterini) che prova a rompere il silenzio giacché “adesso il desiderio si sfibra e smarrisce la politica praticata dal femminismo”.
E poi, con la seconda chiusura “il ritorno dell’identico” pesa in modo insopportabile. Il gruppo si accorge che bisogna scegliere le parole adatte confliggendo con chi – il virus ma non solo il virus – le parole vuole sottrargliele: ora è tempo di ricordare (il tempo dell’oblio verrà dopo).
Il gruppo patisce l’incepparsi del linguaggio nella palude della militarizzazione: “combattiamo il nemico”, “siamo assediati”, “costruiamo trincee”. I social diventano una seconda voce stentata, in falsetto.
Ci si dibatte in questa pseudovita.
“Il Covid-19 ha scoperchiato la vulnerabilità dei nostri corpi, trasformato i ritmi della giornata. Le abitudini sono state sradicate dalla dilatazione del tempo…”
Durante l’isolamento, ogni tentativo di cambiamento deve affidarsi alla lingua e porre domande capaci di disorientare equilibri malsani, ingiustizie plateali nominando la terra desolata prodotta da questa crisi; benché “non di fatalità si tratta”. E la crisi non era una novità.
E’ saltato fuori – un pugno in piena faccia – in modo palpabile che la pandemia, meglio chiamarla sindemia, non colpisce allo stesso modo chi non ha mai maneggiato il modello 730 e chi invece compila la dichiarazione dei redditi; chi si cura e chi non può curarsi; chi mangia bene e chi male; chi ha un lavoro fisso e chi precario, nero, autonomo, sempre che il lavoro ce l’abbia.
A partire dal proprio vissuto, il gruppo osserva gli effetti della violenza, quell’operare in modo sfuggente e diretto, sotterraneo e evidente, fino all’aggressione sulla scena sociale, ambientale, alle angherie verso gli animali, al rapporto sbilanciato tra umani, degli uomini nei confronti delle donne.
Accade di scoperchiare luoghi terribili come le Residenze per anziani dalle quali “tanti, troppi se ne sono andati in silenzio” mentre la strage femminile non si è mai fermata segnalando “quanti uomini non sopportano il confronto ravvicinato e quotidiano con la libertà delle donne”.
In questa fase ci hanno permesso di prendere fiato “i/le braccianti, badanti, interinali, commesse e commessi dei supermercati. L’erosione del Pil è stata arginata dalle fabbriche dove solo le lotte hanno strappato protocolli di sicurezza… hanno scioperato per la prima volta magazzinieri, operai, runner di Amazon. Per un giorno i riders sono scesi dalla bicicletta o dal motorino…”
Lo sguardo femminile si serve di uno speciale radar interiore capace di cogliere i segni e le impronte della violenza? Magari il gruppo possiede quel radar dal momento che la violenza esercitata oggi sul sesso femminile non è poi così lontana da quella raccontata nei miti greci.
Lo stupro tormenta Leda, Danae, Cassandra, Taigete, Persefone: gli dei si travestono da cigni, si nascondono dietro una pioggia d’oro; gli eroi, i re, i pastori si vantano di un oltraggio teso a schiacciare la differenza femminile (direbbe Nicole Loraux), a renderla oggetto di scambio, ritagliandole un posto ridotto nella polis.
Il gruppo ha antenne sensibili. Non solo verso la violenza mortifera per cui una donna genovese, Clara Cecarelli, è arrivata a pagarsi il funerale giacché era sicura di venire uccisa, cosa puntualmente avvenuta, ma verso quella che mostra l’origine violenta della politica.
“Evidentemente, il Covid-19 fa male al mondo e fa male alla democrazia. Si è allargato il divario tra le sedi politiche e la società. Nei partiti l’interrogativo sullo stato dei rapporti tra uomini e donne trova come risposte il ritorno al passato, alla famiglia tradizionale, al razzismo, al disprezzo degli omosessuali, a una cultura che vuole ristabilire il potere maschile (la difesa di suo figlio da parte del capo dei 5 Stelle)…”.
Eppure non tutto è perduto. Molti sono stati i gesti di solidarietà benché ostacolati dagli effetti di conformismo fino alla troppo invocata resilienza. Tirare in ballo “la cura” (intorno alla quale il gruppo riflette da anni) ha significato la sua banalizzazione per lasciare le cose come sono.
Averla ripensata invece spinge a chiedersi se sia possibile maneggiare la qualità che la cura mette nell’esperienza umana “grazie alla quale il mondo potrebbe non reggersi unicamente su rapporti di potere, sulla centralità del profitto e sul valore dominante del denaro. Si tratta di un resto prezioso che socializzazione, servizi organizzati, e lavoro retribuito non possono sostituire”; comprende il lavoro del vivere mentre porta in primo piano le relazioni (la politica delle donne).
In definitiva, si può immaginare di riparare i disastri dell’incuria? “Ecco, questo resto va usato nella crisi che è anche crisi del linguaggio, determinata dalla pandemia. Dunque, dobbiamo trovare le parole in grado di nominare la crisi e assieme le azioni umane che l’hanno prodotta”.
La pandemia provoca un cambiamento personale e collettivo: d’altronde, un conto è arrendersi alla violenza, un altro respingere le ingiustizie e i soprusi.
“Cambiare rotta comporta scelte non indolori. Contro una gestione della salute che non prende le distanze dal passato; contro lo svilimento della vecchiaia; contro la manomissione del pianeta e dell’ambiente, della terra e dell’aria; contro gli allevamenti intensivi”.
Dalla politica arrivano balbettii e rassicurazioni a tornare “come prima”. I vaccini sono fondamentali ma se vanno assieme alla prevenzione, alle terapie domiciliari, ai presidi sanitari territoriali. E rendendosi conto dell’“interdipendenza globale dei viventi” sennò la tecnoscienza rischia solo “di accelerare il disfarsi del mondo”.
Per cambiare i meccanismi che regolano gli scambi economici, sociali, simbolici “la forza trasformativa della libertà femminile ha scom- messo sulla presa di parola per trasformare in radice la realtà del presente… affinché la cura come desiderio e come conflitto produca una diversa politica”. Perché la realtà è ordinata dalle parole che, a loro volta, nominano e trasformano la realtà.