Questa recensione è stata pubblicata sul Foglio l’8 giugno 2021 –
Le campane della chiesa di Nembro non suonavano più a morto, “perché troppi sono i lutti, troppo angoscianti quei colpi ripetuti senza sosta”. E molti altri sono stati i silenzi, nel tempo della pandemia. Accanto al silenzio delle città svuotate dal coprifuoco ci sono stati silenzi, autocensure, afasie della politica, della ragione e della ragionevolezza, della comunicazione tra le generazioni e tra i sessi, tra governanti e governati, tra “esperti” e profani.
Indiscreta cartina di tornasole, il Covid-19 ha enfatizzato le ferite della realtà, manifestandosi come qualcosa che “intorpidisce la vista eppure funziona da lente d’ingrandimento”. Basti pensare ai corpi: negati, segregati, cancellati, proprio mentre in apparenza conquistavano la ribalta come protagonisti assoluti. Di cos’altro ci si è occupati, in fondo, se non di corpi da proteggere, da nascondere, da distanziare, da abbandonare con fiducia o con timore nelle mani di medici e infermieri, corpi dei malati separati dai corpi dei sani, corpi impazienti dei giovani contrapposti a quelli “a perdere” dei vecchi?
Nell’oceano di parole che hanno provato a fronteggiare la nuova realtà finora ha vinto il silenzio, inteso come riproduzione di schemi d’interpretazione inservibili. La minaccia della peste, così irreale nel mondo al quale apparteniamo, si è materializzata senza chiedere permesso e si è messa subito all’opera per dettare le proprie leggi, i propri tempi, la propria sintassi.
A fronte di una situazione inaudita, scrivono Paolozzi e Leiss, la reazione di chi avrebbe dovuto spiegare, rassicurare, almeno interpretare, ha saputo quasi solo frugare in decrepiti arsenali bellici – nemico, trincea, prima linea, eroe, battaglia, armi, guerra totale – mentre è “il momento per affinare lo sguardo e prestare attenzione ai linguaggi che la violenza la evocano o la rimuovono attraverso l’imposizione, l’ordine, l’assertività senza nulla spiegare”. Non abbiamo bisogno di chiamare eroe chi è impegnato nel lavoro di cura, altra parola balzata sul proscenio in simmetria con il linguaggio bellico. Il quale non è semplicemente sbagliato, suggeriscono Paolozzi e Leiss: è inutile e fuorviante. Nel loro libro che è insieme cronaca, analisi, proposta di uno sguardo diverso su se stessi e sui tempi, gli autori rileggono i cambiamenti individuali e collettivi di più di un anno di pandemia e il racconto che ne è stato proposto. Lo fanno tenendo a bada le banalizzazioni, smascherandole, mostrando strade alternative. Strade capaci di far uscire individui e società da quella “crisi della cura” diventata tanto più evidente nel momento in cui la vicenda del Covid-19 appare il frutto perfetto dell’incuria travestita da ottimizzazione delle risorse e da sviluppo. Per “capovolgere la paura in speranza attiva”.
Letizia Paolozzi, Alberto Leiss – Il silenzio delle campane. I virus della violenza e la cura, Harpo, 2021, 185 pagine, 18 euro.