Adesso che il Lazio è zona gialla, puoi tornare al cinema. Dopo venti anni, restaurato, rivedi “In the Mood for Love” e per la prima volta “Hong Kong Express” (ne parla qui accanto Ghisi Grutter”) di Wong Kar-Wai. Ambedue girano intorno all’amore. Lo raccontano, lo sezionano, lo ripropongono impastato di tempo e memoria, juke box e rimpianti.
Con gli interpreti spesso inquadrati nei vani delle porte, su per una scala stretta dove evitano di sfiorarsi oppure dentro cornici claustrofobiche: pare che al regista interessino gli spazi vuoti, all’Antonioni.
Con le pantofoline, la parrucca bionda, gli occhiali scuri, gli scatoloni di cartone, le lattine sciroppate di ananas Dal Monte, i vestiti (il “cheongsam” attillato, colletto alla coreana, in numero illimitato, differente solo nei colori e nei disegni): pare che il regista si esalti per i dettagli, alla Bresson.
Con i silenzi, gli inseguimenti, le fughe, i mormorii in dialogo rivolti agli indumenti (sempre la stessa camicia, la stessa cravatta), la memoria appannata, le parole rarefatte: pare che il regista peschi da un vocabolario frammentato, alla Godard.
Però non c’è solo Antonioni, Bresson, Godard e questo e quel maestro nella narrazione di Wong Kar-Wai che si impunta sull’amore. E cosa raccontano i personaggi quando parlano d’amore? Intanto che hanno rinunciato a dire “ti amo”. Nemmeno s’interrogano sull’essenza dell’amore; semplicemente, lo intravvedono nel momento in cui l’hanno perduto, perché se lo sono lasciato sfilare via dalle dita.
Certo, in controluce guardano – come una ballata di Bob Dylan – il nastro dei ricordi, però sono ricordi sfocati, conservati e subito smarriti.
Bé, questo è l’amore oggi e le canzoni, i pupazzi di peluche, il bancone del bar, le gocce di pioggia non ce la fanno a strappare dalla tomba – dove il tempo l’ha infilato – il desiderio ormai sepolto.
Non pensate di trovarvi di fronte al “Nuovo disordine amoroso” (modello ormai scaduto di Pascal Bruckner e Alain Finkielkraut). Nei film di Wong Kar Wai il modello è un altro, ibridato dai media, dalla confusione, dalla distrazione. Qui, nei due film, si corre, si asciugano lacrime, si strizza uno straccio bagnato: “Quando un uomo piange basta un fazzoletto, ma quando a piangere è una casa, ti tocca fare un sacco di fatica” (in “Hong Kong Express”). La quotidianità significa inseguire le ombre, senza aprire una lettera, senza rispondere a una telefonata.
Eppure, quell’intuarsi (verbo usato da Carlo Emilio Gadda per descrivere il riconoscersi nell’altro/altra; l’esistere attraverso il sentimento dell’altro/altra) che stravolgeva l’esistenza e spaccava il cuore a metà, simile al melograno, si trasforma in un fantasma, quello dell’attore Tony Leung – espressione dell’erotismo pudico – che interpreta il signor Chow, l’amante impossibile nonché il poliziotto solitario, numero 263. Oppure quello dell’attrice Faye Wong, la cameriera Ah Fei, innamorata persa dell’agente distratto.
I maschi, le femmine, le ombre corrono sul fondo a sostegno dell’atmosfera sognante, dove le ore vengono sbocconcellate e la voce fuori campo – Wong Kar-Wei vi ricorre di continuo – sanno riempire la lentezza, esaltare la memoria, catturare la musica di Nat King Cole, dei Mamas and Papas.
Sulla riproposizione dei film il regista ha spiegato, citando Eraclito: “Ricordate quell’aforisma: nessun uomo cammina due volte nello stesso fiume, perché il fiume non è lo stesso e lui non è lo stesso uomo? Dall’inizio alla fine dei restauri, queste parole mi hanno aiutato a vedere l’intero progetto come l’opportunità di trasformare il lavoro del passato in uno nuovo”.
Secondo me, tanti uomini e donne hanno scelto il cinema di Wong Kar-Wai perché, dopo l’inabissamento e il lockdown e la quiete forzata, hanno bisogno di capire cosa sia diventato adesso l’amore.