Si è tenuta lo scorso sabato 27 marzo la presentazione in streaming del quarto volume del libro di Ghisi Grütter AL CINEMA CON L’ARCHITETTO, Timía edizioni 2021. L’autrice ha iniziato ad interessarmi al cinema – ha raccontato – quando i mezzi d’informazione visiva erano scarsi e la conoscenza delle città era filtrata dal cinema diventando una prerogativa, quasi esclusiva, dei cinéphiles. Solo alcuni storici della città e urbanisti raffinati erano stati in viaggio negli Stati Uniti, spesso ci avevano vissuto conoscendo la cosiddetta scuola di Chicago, o incontrando Frank Lloyd Wright, come fecero Bruno Zevi o Mario Manieri Elia.
Nel capitolo propedeutico alla lista delle recensioni, sono stati raggruppati i film di questi ultimi due anni, secondo alcune “categorie urbane”, anche se non è sempre stato semplice – ha osservato Grütter – individuarne la categoria prevalente. Nel gruppo LA CITTÀ NEL CINEMA sono inseriti i film a “trama urbana” dove sembra che la città sia la vera protagonista del film, come ad esempio la New York di Woody Allen oppure la Lione di François Ozon. L’ALTRA CITTÀ è quella di cui vengono mostrati i “non luoghi” un po’ alla maniera di Wim Wenders: qui sono inseriti vari film cinesi e coreani, i film di Ken Loach, ma anche “Favolacce” dei fratelli D’Innocenzo, dove è rappresentata una certa Roma periferica a sud-ovest (Spinaceto, Campo di Giove). La categoria di CINEMA E PAESAGGIO è quella dove il protagonista del film è più il territorio che la città. Lì troviamo “Honeyland”, un film macedone che narra la vita di una coltivatrice di api alla maniera tradizionale o anche “Nel nome della terra”, un film a “trama contadina” in una parte di territorio lungo la Loira, al confine con la Normandia.
Ne LA CITTÀ STEREOTIPO, sono privillegiati quei film decisamente suburbani, nell’accezione prevalentemente statunitense dell’habitat della middle-class (“Georgetown” e “Little children”), ma ci sono anche casi europei o italiani. LA CITTÀ SIMBOLICA invece è quella categoria dove sono inseriti molti docu-film su artisti pittori e in cui la realtà urbana è presente ma non esplicita, non narrata. Ne IL LUOGO CONTENITORE invece si trovano i film con un impianto più teatrale, rilevante comunque dal punto di vista architettonico: il Castello (Hatfield House nello Hertfordshire) de “La Favorita” o anche la villa modernissima di “Parasite”. Nella categoria de LA PICCOLA CITTÀ COME AGGREGAZIONE SOCIALE si trovano film di estremo interesse tra cui ad esempio “Arbëria”, storia di una esigua comunità albanese nel borgo di Santa Caterina in Calabria.
A queste classi, più decisamente urbane, se ne aggiungono un paio, rilevanti tra i film recenti: LE IDENTITÀ SESSUALI, come “Mattias & Maxime” di Xavier Dolan che sul tema della omosessualità ha costruito il suo cinema militante, e LO SGUARDO FEMMINILE sia per la presenza di donne protagoniste, sia per la particolarità del loro sguardo. In “Miss Marx” di Susanna Nicchiarelli sembrava che il destino di Eleonor fosse prendersi “cura” prima del padre, poi della sorella malata, alla fine del marito, ciononostante è riuscita a trovare una propria identità autonoma. Invece, in “Piccole donne” la regista Greta Gerwig fa dire alla terribilmente conservatrice zia March/Meryl Streep: «Una ragazza può non sposarsi solo se nasce maledettamente ricca».
Ha preso poi la parola Alessandra Bailetti che scrive da anni recensioni cinematografiche nel sito culturale “Ticonzero”. Ha rilevato l’attuale difficoltà di reperire dei buoni film giostrandosi tra le varie piattaforme televisive e ha messo in evidenza lo sguardo dell’architetto nelle recensioni. Infatti in ogni film è evidenziato un elemento artistico o architettonico come l’edificio Postale del 1932 a Sabaudia di Angiolo Mazzoni in “Magari”, oppure la Torre Agbar a Barcellona del 2005 di Jean Nouvel in “Domani è un altro giorno”. Ha rilevato anche una sorta di gaffe nel film “La conseguenza” dove l’ufficiale nazista possiede con orgoglio la storica sedia moderna progettata da Mies van der Rohe la cui architettura è stata notoriamente ostacolata dal regime costringendolo a chiudere la Bauhaus e ad emigrare negli Stati Uniti.
È intervenuto quindi Cesare Pietroiusti, artista e Presidente dell’Azienda Speciale Palaexpo dal 2018, che ha messo in rapporto “monitor e video”. Ha affermato che oggi lo schermo sta vincendo sul monitor (essi stessi diventano schermi) e a tale proposito ha mostrato alcune installazioni (videoproiezioni) recenti tenutesi al Palazzo delle Esposizioni. Tra queste quella di Julian Rosefeldt chiamata “Manifesto”, recitata da Cate Blanchett che interpreta dodici personaggi diversi e legge manifesti politico-artistici in schermi proiettanti in contemporanea. “Manifesto” era stato pensato inizialmente come videoinstallazione multi-schermo all’Australian Centre for the Moving Image, poi è esposta a Berlino e a Sidney presso la Gallery of New South Wales. Rimontato in lungometraggio dallo stesso regista-artista era stato poi presentato al Sundance Film Festival del 2017.
Ha continuato la presentazione del libro Monica Sgandurra, architetto e paesaggista, ricordando la figura di un regista particolarmente sensibile alla città e cioè Wim Wenders. Ha così citato una sua frase tratta dal famoso libro L’arte di vedere dove Wenders si rivolge a un pubblico di architetti riuniti in convegno a Tokyo il 12 ottobre 1991: «Il cinema è una cultura urbana, nata sul finire del secolo scorso e cresciuta parallelamente all’espansione delle metropoli». Basti ricordare alcuni film “a trama urbana” da lui girati negli anni tra il 1970 e il 2000, tra quelli europei “Lisbon story”, dove della città vengono evidenziati anche i rumori, o “Il cielo sopra Berlino” che mostra una città martoriata dalla guerra, oppure quelle dei “non luoghi” statunitensi come ad esempio “Paris, Texas”.
Franco Purini, architetto e Professore Emerito dell’Università La Sapienza di Roma, ha sottolineato che ogni opera ha tre piani contenuti che contraddistinguono i film: il contenuto referenziale diretto (la trama), il contenuto metaforico e il contenuto autonomo, cioè quello formale. Questi tre elementi vengono variamente organizzati in ogni unità artistica. Importante secondo lui è il fatto che il cinema costruisce una realtà autonoma altra rispetto al film, e perfino il neo-realismo non rappresenta il “vero” ma un “altrove” che ha in mente il regista. Ha aggiunto una suggestiva notazione di Karl Popper – trasposta nei film – che le tematiche fisse vertono sul viaggio, sullo scontro oppure sul rifiuto o accettazione e a tal proposito ha citato quattro film: “Casablanca” del 1942, “Vacanze Romane” del 1953, “La dolce vita” del 1960 e “La la Land” del 2016.
L’ultimo degli interventi programmati è stato quello di Andrea Lanini, artista e performer, che ha scritto anche la postfazione del libro. Partendo dall’analisi di alcuni film prevalentemente d’arte, recensiti nel libro, ha approfondito gli aspetti di analogia tra i linguaggi figurativi. La magia del cinema, secondo Lanini, ha a che fare con il mistero, con la luce, con la sacralità del cinema. Di particolare suggestione è il paragone tra un fotogramma di Motherless Brooklyn, i segreti di una città e il Ponte di Brooklyn, un famoso quadro dipinto nel 1920 da Joseph Stella, così come quello tra un fotogramma del film “1917” di Sam Mendes e un quadro bellico di John Nash artista ufficiale di guerra dal 1918.
Vari interventi dal pubblico hanno voluto testimoniare la condivisione della passione per il cinema e la nostalgia delle sale cinematografiche.