C’è una visione quasi cinematografica nel libro di Daniele Petruccioli. Il luogo contenitore è la casa in cui sono cresciuti i gemelli, oggi in via di totale ristrutturazione. E mentre gli operai lavorano demolendo i tramezzi e sostituendo i pavimenti, in flash-back si snodano le vicende e il declino di una famiglia della borghesia patriarcale romana durante mezzo secolo: l’età dell’autore.
La storia si svolge all’interno di un appartamento in un palazzo romano, che viene suddiviso in tre diverse unità abitative. Come molte case borghesi di una volta con un “taglio famiglia”, l’appartamento aveva un ampio ingresso, un corridoio, varie stanze da letto, un’ampia cucina, una grande sala da pranzo (per dodici scrive l’autore) e la stanzetta per la domestica. Lì viveva il nonno notaio, proprietario anche di vari appartamenti del palazzo e, dopo la morte del notaio, ci ha vissuto la figlia minore con i suoi figli.
Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, molti nobili romani avevano iniziato a lottizzare i loro possedimenti, spesso avevano bisogno di contanti ed era relativamente facile per i notai comprare gli immobili in modo vantaggioso.
A ogni capitolo del libro si alterna un nuovo stadio della casa in ristrutturazione e contemporaneamente si ripercorre la storia di questa grande famiglia. Così scrive Daniele Petruccioli: «Noi crediamo di legarci a relazioni, sentimenti, persone; ma siamo molto più legati ai luoghi e agli oggetti che hanno accolto noi, e queste persone, coi sentimenti che ci siamo suscitati a vicenda e le relazioni che abbiamo intessuto. Sono i luoghi e gli oggetti (i corpi, i corpi puri e semplici), con la loro malleabilità, la loro possibilità di essere toccati, la capacità di adattarsi, a raccontarci di quelle relazioni, di quelle persone e dei nostri sentimenti verso di loro: a dirci, cioè, di noi».
Il notaio aveva sposato Nina, una donna colta che conosceva varie lingue e faceva traduzioni letterarie. Era un’epoca in cui le donne borghesi non lavoravano, essere mogli e madri di vari figli, era considerato di per sé già un impegno, anche quando erano ben coadiuvate nei lavori di casa. Il notaio e sua moglie avevano avuto quattro figli – tre femmine e un maschio – ma il racconto ne coinvolge solo due, i più legati affettivamente: Pinuccio e Sarabanda, l’unico maschio e la più piccola delle sorelle.
Ne “La Casa delle madri” le case protagoniste sono due: quella di Roma nel quartiere Prati (l’ultimo a prendere il nome di “quartiere”) e la villa a due piani scoscesa sul mare: uno di Sarabanda, quello sopra di Pinuccio.
La figlia più piccola del notaio è una ribelle impegnata politicamente che nel maggio francese va a Parigi. Lì sboccia l’amore con Speedy – uno dei leader sessantottini – e si sposeranno dopo poco. Qualche anno dopo Sarabanda diventerà una delle protagoniste del femminismo romano. Dall’amore con Speedy nasce una coppia di gemelli, in un parto complicato che richiederà l’uso del forcipe (nonostante lei sollecitasse un cesareo) ed Ernesto, uno dei due gemelli rimarrà menomato, mentre Elia sarà salvo. E sano.
Questa situazione di disparità è il leitmotiv di tutta la narrazione. La voce narrante sembra conoscere molto bene i meccanismi inconsci di una coppia di gemelli e in particolare di quella in cui la conflittualità unisce e divide contemporaneamente: l’autore fa sempre riferimento alle rette parallele (si incontrano all’infinito). Le fondamenta su cui è costruito il romanzo, secondo l’autore in un’intervista, sono identità e devianza: «I gemelli da una parte, e il fatto che siano uno sano e uno malato dall’altra, sono un’ottima occasione per parlare di vicinanza e lontananza (da sé, dal mondo, da quello che del mondo amiamo) vissute in modo eccessivo. Un eccesso di vicinanza è una vicinanza mancata, e una lontananza in eccesso è uno strappo, una solitudine imposta, un rifiuto. Entrambe finiscono per essere, per me, simbolo di perdita».
Sarabanda non ha mai accettato la diversità di Ernesto e fa di tutto per riportarlo a una vita “normale” a costo anche di fargli fare grandi sacrifici fisici. In tal modo si prende cura in maniera quasi ossessiva del gemello “sfortunato” (non dice “malato”) cercando di responsabilizzare il fratello che, invece, si sente trascurato e cerca di sfuggire in cerca di una propria identità. Prima pretende una sua stanza distaccata, poi opta per una scuola diversa. I genitori si separano quando i gemelli avevano circa sette anni; forse si erano sposati troppo presto – lui era ancora studente – e il carico di responsabilità dell’essere genitori così giovani e di dover affrontare un grosso problema di salute, probabilmente ha contribuito non poco al loro allontanamento.
Nel libro c’è spazio anche per la descrizione della nonna Ilide, la mamma di Speedy e di altre due maschi, con cui i gemelli passavano ogni tanto del tempo. Proveniente da un ceto sociale diverso, la nonna era molto religiosa e tendeva all’accettazione della malattia, quasi una prova di Dio. Naturalmente tra Sarabanda e la suocera, oltre alla classica contrapposizione dei ruoli, c’erano anche queste posizioni ideologiche ben distanti. Sarabanda non era religiosa, era marxista e anticonformista.
Dopo una tremenda malattia Sarabanda se ne andrà a cinquant’anni, situazione cui i gemelli reagiscono diversamente; in particolare Ernesto inizia a stare male peggiorando ogni giorno e prendendo una china autodistruttiva. Anche la casa al mare sarà venduta e smantellata, negli spazi vuoti dell’abitazione si snocciola il ricordo degli anni passati e delle persone che l’hanno abitata: ultima memoria tangibile la targa sul cancello con il cognome della madre.
La voce narrante sembra passare da un fratello all’altro sviscerando ogni cosa attraverso due ottiche contrapposte, e già solo la tematica dei gemelli sarebbe di per sé impegnativa e inquietante.
Questo di Petruccioli è un tipo di letteratura che non deve tutto alla cultura dell’immagine ma alla facoltà rappresentativa che appartiene alla scrittura, in senso proprio. Quando chi legge non assiste a un movimento che si svolge di fronte a lui, ma viene mosso lui stesso dentro una scena a perquisire lo spazio che si descrive e a indovinare i pensieri e i sentimenti, e quando non gli viene tanto narrata una vicenda, quanto trasmessa, il lettore stesso fa un’esperienza che considera come fosse propria.
Per alcuni versi il libro mi ha evocato “Fratelli” di Carmelo Samonà – un racconto del 1978 che lessi tanti anni fa – dove il fratello sano si prendeva cura di quello malato, ultimi eredi di una antica famiglia, rimasti nella grande casa ormai vuota. Ma in “La Casa delle madri” il rapporto non è lineare e gli intrecci psicologici sono molteplici e spesso contraddittori.
Il libro è molto ben scritto ed è pieno di sofferenza. Alcuni critici hanno riscontrato, nelle introspezioni psicologiche e nel tipo di scrittura, analogie addirittura con lo stile di Marcel Proust e di Virginia Woolf, autrice molto amata da Sarabanda. Daniele Petruccioli è candidato al Premio Strega con questo suo primo romanzo. Ha scritto “Falsi d’autore. Guida pratica per orientarsi nel mondo dei libri tradotti” per Quolibet, nel 2014; si era già distinto nel panorama editoriale come traduttore di grandi classici della letteratura portoghese – nel 2010 ha vinto il premio Luciano Bianciardi per la traduzione della fiaba epistolare “Lettere” di Mark Dunn ed. Voland 2008.
Daniele Petruccioli, La casa delle madri, TerraRossa, 2020