Se solo non fosse così difficile per me memorizzare i nomi coreani! Le mie conoscenze del cinema coreano nascono con il compianto Kim Ki-duk, quando vidi quel suo splendido film dal titolo “Ferro tre” del 2004. Da allora, scopro ogni tanto qualche nuovo e bravo regista che viene dalla Corea del Sud e che ha una grande attenzione al sociale, un notevole impegno e formula un’aspra critica nei confronti dei fenomeni di corruzione. Spesso con un buon sense of humour e del grottesco.
Il tema della corruzione nelle istituzioni è uno di quelli ricorrenti nel cinema coreano, basti citare “Ordinary Person” (2007 di Kim Bong-han) o “Silenced” (2011 di Hwang Dong-hyuk): un tema all’ordine del giorno nella realtà quotidiana. Ottime sono le pellicole coreane che esplorano il mondo della criminalità con i suoi codici e quelle che indagano la sua controparte della polizia quasi sempre corrotta (“Nowhere to Hide” 1999 di Lee Myung-se, “Memorie di un assassino” del 2003 di Bong Joon-ho, “Man in High Heels” 2014 di Jan Jing, “The King: Eternal Monarch” serie del 2020 di Baek Sang-hoon, Jung Ji-hyun e Yoo Je-won).
Questi film si possono considerare dei prodotti della Hallyu cioè della Korean Wave. La Hallyu è diventata un fenomeno globale influente dagli inizi del XXI secolo con un grande impatto sulla musica, cinema, televisione e sulla cultura, in generale. Secondo alcuni critici il suo successo è da ricercarsi nel fatto che sia «esteticamente fresca, economicamente redditizia, culturalmente avvincente, tecnologicamente sofisticata e ideologicamente introspettiva» anche se, nonostante tutto, la cinematografia coreana sia andata incontro anche a critiche negative.
Il regista Na Hong-jin è nato a Seul nel 1974 e ha studiato alla Korea National University of Arts dove, oltre alle scuole di musica, di arti visive, di arti tradizionali coreane, ci sono quelle di teatro, di cinema e di Tv e multimedia.
“The Chaser” del 2008, “The Yellow Sea” del 2010, e “Goksung – La presenza del diavolo” del 2016, sono i tre film che ha diretto – disponibili su Prime Video – e che presentano storie dove s’intrecciano serial killer, noir e horror rendono questo regista allo stesso livello di Bong Joon-ho (“Parasite” del 2019, “Memorie di un assassino” del 2003) e di Park Chan-wook (“Lady Vendetta” del 2005, “The Handmaiden” del 2016).
Il film “The Chaser”, il debutto alla regia di Na Hong-jin, è tratto da un fatto di cronaca di un serial killer. Racconta le vicende di Jung-ho (interpretato da Kim Yoon-seok), un ex poliziotto, cacciato via dalla polizia un paio di anni prima per corruzione, che gestisce un piccolo traffico di prostitute. Un cliente maniaco inizia a far sparire le sue ragazze e Jung-ho all’inizio pensa che gliele rubasse per utilizzarle lui come lenone. Si mette sulle sue tracce e scopre che, invece, le uccide. Tutto il film è l’inseguimento (to chase vuol dire inseguire) del serial killer, rilasciato dalla polizia perché non riusciva a trovare i cadaveri, da parte sia dei poliziotti sia di Junh-ho, con il suo aiutante. Oltre alla corruzione e alla stupidità dei poliziotti è mostrato il ruolo dei politici che vogliono soffocare gli scandali. Vengono rappresentate tante piccole goffaggini che danno un tono grottesco alla pellicola.
Il film mi ha ricordato “Memorie di un assassino” – anch’esso tratto da una storia vera – ma il tutto è vissuto in un contesto più decisamente urbano. Molto belle sono tutte le scene girate tra le stradine strette della parte collinosa di Seul (mai nella metropoli contemporanea!).
In “The Chaser”, inoltre, c’è un ottimo montaggio che dona un ritmo impeccabile alla suspense e rende il film avvincente. Con la sua prima pellicola Hong-jin ha vinto il premio per il miglior regista al Grand Bell Awards e ai Korean Film Awards nel 2008.
“The Yellow Sea” – “Hwanghae” in originale -, invece, porta alla ribalta il problema delle comunità sino-coreane, e nella prima parte del film c’è una meticolosa rappresentazione di questa umanità che sembra dimenticata dalle pagine di storia e dalle news. Il Mar Giallo è il mare al margine dell’Oceano Pacifico occidentale situato tra la Cina continentale e la penisola coreana è, in un certo senso, la parte nord-occidentale del Mar Cinese orientale. Il protagonista è Gu-nam (interpretato da Ha Jung-woo) che fa il tassista a Yanji nello Yanbian, una provincia autonoma che confina con la Cina, la Russia e la Corea del Nord. È uno Joseonjok, ossia un sino-coreano, che parla entrambe le lingue, ma considerato come uno straniero dai Cinesi e come uno soggiogato dai Coreani.
Il tassista ha il vizio del gioco e si trova indebitato con varie persone, oltretutto ha una figlia piccola che vive con la nonna, mentre la madre – sua moglie – lo ha abbandonato per un altro, con il quale è ritornata a vivere in Corea. Il cosiddetto Macellaio gli propone un lavoro: deve uccidere un uomo a Seul e tornare con il suo pollice mozzato in cambio di parecchi soldi. Gu-nam viene così trasportato in un barcone in Corea insieme a molti altri immigrati clandestini sperimentando su se stesso questa terribile esperienza. Troverà l’uomo, ma già ucciso. Sembra che fossero in molti a volerlo morto e in tal modo Gu-nam si ficca in una situazione assurda in cui tutti lo cercano credendolo il vero assassino. Sarà inseguito per le strade di Busan dalla polizia per un omicidio che non ha commesso e dagli stessi membri dell’organizzazione che lo ha mandato pronti a tappargli la bocca. Contemporaneamente, accecato dalla gelosia, cerca la moglie che scoprirà esser finita male. Qui c’è, a mio avviso un eccesso di massacro: coltelli, asce, tubi, mazze e addirittura ossa, basta che lo scontro sia corpo a corpo.
Senza fare spoiling, posso dire che il regista con questo film vuole asserire che anche un uomo comune come Gu-nam, quando si vede messo con le spalle al muro, si può trasformare in un essere feroce pronto a difendere con i denti e con gli artigli la propria stessa vita, proprio come un cane nei combattimenti.
“Goksung – La presenza del diavolo” (conosciuto anche con il titolo “The Wailing”) è un film che possiamo definire del genere horror in quanto innesta il soprannaturale sulla realtà quotidiana, ci si trovano esorcismi, messe nere, spiriti maligni, fantasmi, superstizioni, insomma tutto il repertorio classico. Goksung è una piccola cittadina nelle montagne coreane giù nel Sud del paese, nella quale a un certo punto arriva un anziano giapponese (interpretato da Jun Kunimura). In contemporanea al suo arrivo si iniziano a trovare alcune morti misteriose. All’inizio si scopre una coppia massacrata e si pensa sia un delitto passionale, poi però si trova un altare nella casa che mette in discussione la prima ipotesi. Inoltre, si parla in giro di un uomo nudo che si nutre di carcasse e scoppia un’epidemia di strane malattie. Incaricato dell’indagine è Jong-gu (interpretato da Kwak Do-won) un ufficiale della polizia locale che vive con la moglie e con la figlia ancora bambina. Più si va avanti nelle ricerche e più rimane sconcertato, quindi, deciderà di rivolgersi a uno sciamano.
Belle sono le scene del guano e degli uccelli nell’auto, così come suggestive quelle del tentativo di esorcismo dello sciamano perché sembra che la figlia di Jong-gu sia posseduta dal demone. Il film mette insieme suggestioni diverse, dal thriller alla storia di possessioni demoniache, ma anche immagini tratte da pellicole sugli zombie e sui fantasmi. Cambia registro lungo il percorso, iniziando come un giallo e arrivando a mettere in atto un melodramma familiare in cui sembra che la storia sia solo quella di un padre che deve salvare una figlia.
Na Hong-jin è un regista profondamente estetizzante nel mostrare la cruda violenza; più contenuto in “The Chaser” in cui attribuisce la violenza prevalentemente a un malato maniaco (il serial killer) espande le conflittualità nel suo secondo film a gruppi rivali con quel tanto di raccapricciante e simbolica “primitività” che, per esempio, ci fa tanto orrore nei massacri dell’ISIS. In “Goksung – La presenza del diavolo” poi la violenza diventa più una scena splatter, alternando un’uccisione e un esorcismo mantenendo però sempre alta la tensione in un film piuttosto lungo, di due ore e quaranta minuti.