Gira un video (ma quanti saranno in questi mesi claustrali?) su “Donne che stanno arrivando”. Da Angela Merkel a Mia Mottley, presidente delle Barbados, una galleria di facce femminili sorridenti, severe, vigili: non so se tutte democratiche e progressiste dal momento che il mondo è bello perché è vario e le donne sono differenti una dall’altra, come sono differenti i maschi che possono essere buoni o cattivi, narcisi o compassionevoli, comprensivi o violenti.
Comunque, queste donne emergono per il loro ruolo ufficiale, istituzionale, di responsabili della cosa pubblica, dedite alla cura della vita dei propri concittadini.
La cura vale non solo per Merkel e socie. In Italia la cura si nomina ogni minuto. Per risanare corpi malati dal momento che abbiamo il terrore di non venire curati/e in modo adeguato. Con umanità.
La cura, naturalmente, è anche altro. Un metodo nella tessitura dei rapporti politici e sociali; un criterio di attenzione verso il mondo, l’ambiente, il quotidiano delle persone; un’avvedutezza nei confronti di ciò che si produce; una indicazione al riprodursi dell’esistenza dei singoli e collettiva.
Don Lorenzo Milani aveva scritto su un cartello all’ingresso della scuola di Barbiana “I care”, Io ho a cuore, Mi importa dell’altro. Il primo congresso nazionale dei Democratici di sinistra al Lingotto ruotava intorno all’ “I care”. Ma la politica è lastricata di buone intenzioni.
Dopodiché, il ragionamento sulla cura ha preso altre strade: nei libri di filosofia, sociologia. Quello che qui interessa è piuttosto il filo che attraversa testi radicali e militanti come “La cura del vivere” delle femministe del Mercoledì (del 2011). E la pratica politica per cui la cura diviene oggetto vivo, paradigma, ribaltamento di idee e valori.
Oggi, nella situazione di crisi conclamata della democrazia politica, delle sue forme, delle sue culture, di cura non c’è traccia.
Crisi certo non solo italiana (lo ha mostrato l’assalto a Capitol Hill) con attori principali che appartengano al sesso maschile.
Perdonate la semplificazione; vi assicuro che non ho alcuna intenzione di gettare la croce addosso al sesso maschile. Conosco uomini interessati allo scambio e non a gonfiare l’io quasi fosse un palloncino.
Cosa che invece mi pare stia accadendo con Giuseppe Conte (“il giurista di Volturara Appula”) fino a qualche giorno fa a capo di un governo di fragili partiti (spesso pure sigle) e “responsabili” comizianti appartenenti alla tipologia di Matteo Renzi (“leader di Rignano”).
Ora, se non è una novità che in Italia la debolezza di maggioranze stabili provochi un cambio di governo (sessantasei dal 1946 al 2019), da un anno il Paese è spazzato da un virus al quale poco si adatta il goffo spettacolino dei litigi, smanie di potere, brame di consenso, narcisismi, antagonismi che pure offrono doviziosa materia ai cronisti politici.
Ecco il comportamento del governo che fu; di fronte, separata, lontana – d’altronde, c’è un partito che abbia tentato di riavvicinare rappresentanti e rappresentati? – una società all’inizio della pandemia solidale, ora impaurita dal presente che ripete il passato e dal futuro che non riesce a immaginare. Assuefatta all’elenco del numero dei morti, si astiene dal chiedere il conto sulla base del filosofico assunto: Io speriamo che me la cavo.
Intanto, i movimenti, stretti al loro “buon fare” nelle associazioni, gruppi, comunità, a fatica cercano di schiodarsi dai propri confini. Di evitare i rischi dell’autoreferenzialità, chiusi in nicchie di autodifesa.
Un tentativo è la condivisione – detta “convergenza” – tra molti soggetti che si riconoscono nel nome “La società della cura” (https://societadellacura.blogspot.com) attraverso documenti, incontri (per lo più on line). Sarebbe il momento – parole di Marco Bersani (Attac) a un recente scambio via Zoom – di convergere verso un’altra idea di società. Non un nuovo “soggetto politico” da organizzare, ma un “processo” da riconoscere. Sapendo che ciò comporta, nel nome della cura non ridotta a ai soli sentimenti amorosi, un “confitto gigantesco con i potenti”. Ma c’è qualcosa di più e di diverso giacché il conflitto sta nel cuore della cura tra chi decide e chi si affida; tra chi salva e chi dipende. La mia idea è questa, discordante dalla versione classica del conflitto politico e sociale di Bersani e anche da quella dell’assemblea della Magnolia (Casa internazionale delle donne di Roma) che discute sulla Next Generation EU con un programma di donne, su temi di donne e proposte di donne.
Il problema con compagni e compagne consiste proprio sul senso da dare alla cura in quanto strumento per riorientare la politica; praticare le relazioni, senza ricreare la solita divisione amico-nemico ma appunto, prestando attenzione a quel “tra” che mette in discussione l’impostazione del mondo tra vita e lavoro; tra produzione e riproduzione.
Prima dell’avvio delle consultazioni il segretario dem Nicola Zingaretti ha detto: “Non abbiamo alcuna intenzione di chiuderci nelle nostre stanze a cercare un governo a qualsiasi costo… Prendiamoci cura dell’Italia e credo che la cura giusta sia un governo europeista, repubblicano, che rilanci lo sviluppo socialmente giusto e attento agli ultimi”.
Ma fino a quando lo sviluppo rimane quello che conosciamo, non si vede il suo rapporto con la pandemia, e non cambia radicalmente il rapporto tra la vita e l’economia, la cura rimane soltanto una parola vuota.