I giorni della memoria, la settimana della memoria, ogni anno si avvicinano verso la fine di gennaio, costituiscono, per alcuni di noi, una sorta di espiazione per coloro che sono sopravvissuti ai propri cari. Ci si sente in “obbligo” di vedere o ri-vedere almeno un film che parli della Shoah. Alla razionalità del giudizio sulla storia si sovrappone la rabbia dell’impotenza, il rancore per l’ingiustizia, lo sconforto per non aver neanche potuto conoscere i propri nonni, i propri parenti uccisi nei Lager. Il dolore di non avere neanche un luogo dove poterli piangere, di non sapere dove siano finiti i loro corpi, gasati e/o bruciati – come diceva la canzone di Francesco Guccini: «con altri cento passati per il camino e adesso sono nel vento».
Sono quindi giorni pesanti dedicati a “ripercorre” il lutto. Ho visto due film in questi giorni uno sulla Shoah, l’altro sull’ascesa del Nazismo e per fortuna entrambi avevano un finale appagante, anche se tutti e due fanno riflettere e molto.
In televisione hanno passato “The Schindler’s List” di Stefan Spielberg (1993) che mi è piaciuto più adesso che appena uscito. Allora mi sembrò una sorta di commercializzazione di una tematica per me sacra e intoccabile, avevo l’impressione che venisse quasi “profanata” con il cinema. Ricordo come sentii offensivo l’accostamento dell’immagine delle mille sigarette fumate dal “tedesco buono” messe in contrapposizione al fumo dell’enorme camino dell’edifico, sempre in funzione.
Per quei pochi che non sanno la vicenda, Schlinder (Lian Neeson) era un industriale che fece credere ai tedeschi di avere bisogno di mano d’opera per riconvertire una sua fabbrica alla produzione materiale bellico. In tal modo formò una lista di ebrei (ricongiungendo peraltro le famiglie inclusi i bambini) che portò con sé in Polonia salvandone la vita. Ciò a costi altissimi – utilizzò tutti i fondi in suo possesso – perché aveva dovuto corrompere con regali e danaro parecchi nazisti tra SS e Gestapo. Bella e commovente è la scena finale in Israele dove Oskar Schlinder ha voluto essere sepolto nel piccolo cimitero francescano cattolico che si trova su Monte Sion, nella parte vecchia di Gerusalemme. Duecento persone delle circa 1.100 salvate da lui (ma il numero esatto non ci è dato sapere) hanno voluto omaggiare la sua tomba e deporre un sasso o una pietra sulla lapide, alla maniera ebraica. La loro vita è salva grazie al coraggio di quest’uomo, uno dei rarissimi tedeschi che non ha seguito gli ordini.
La sera successiva ho assistito su RAI Play a un film del 2018 – tratto dal libro di Robert Seethaler (2015) – che non avevo visto nelle sale cinematografiche: “Il tabaccaio di Vienna” di Nikolaus Leytner che racconta l’ultimo anno immediatamente precedente all’annessione (che sarà il 12 marzo del 1938) dell’Austria con la Germania: il percorso del nazismo in Austria visto con gli occhi di un ragazzo diciassettenne (Simon Morzé).
Timido, riflessivo e gentile, è capace però di gesti coraggiosi e di affetti profondi, primo fra tutti per la madre, poi per l’anziano Freud (Bruno Ganz che, ironicamente, in un altro film aveva interpretato Hitler!). Interessanti sono le riflessioni sulla vita, sulle sue difficoltà e sulla sua brevità. Nikolas Leyter adatta il romanzo omonimo in un film che è contemporaneamente dolce e amaro, un coming-of-age ambientato ai tempi dell’ascesa nazista. Inframezza la storia con i sogni le cui simbologie sono più o meno esplicite conferendo a Franz uno sguardo spesso surreale illuminato da sprazzi visionari e metaforici.
Il diciassettenne Franz è stato mandato dalla mamma a Vienna da un piccolissimo paesino nella campagna collinosa sul lago dove vivevano, a cercare lavoro e protezione presso un vecchio amico della madre, che gestiva una tabaccheria in centro città. Otto Trsnjek (Johannes Krisch), così si chiama il tabaccaio, è un veterano dell’ultima guerra che ha perso una gamba, e lo assume come apprendista nel suo negozio, una rivendita di tabacchi. Attorno a Otto girano varie diverse persone: dalla moglie borghese di un ufficiale come cliente, a un anarchico amico, a giovani ragazze forestiere interessate a comprare cartoline e carte postali a persone che mal accettano il prossimo cambiamento in politica, e qualche intellettuale ebreo, come il Professor Freud, conosciuto in tutto il mondo.
Siamo nel 1937 e il Paese austriaco sta per essere forzatamente annesso al Terzo Reich, con la connivenza di molti cittadini che iniziano a vedere gli ebrei come nemici della patria. Prima che la situazione prenda una piega sempre più tetra e inquietante, il protagonista ha modo di stringere amicizia con uno dei clienti, l’anziano professor Sigmund Freud. Sarà proprio lui a spingere il ragazzo alla scoperta dell’amore; infatti poco dopo avverrà l’incontro tra Franz e la bella e giovane Anezka (Emma Drogounova), che trascinerà Franz nella passione e nella gelosia.
Sull’Austria incombe l’imminente conquista del Terzo Reich, ma in apparenza la vita del neighbourhood non sembra cambiare molto, a parte gli striscioni appesi e i modi arroganti dei militari. La vita nella capitale continua per un po’ come al solito, un via vai frenetico di carrozze, di cavalli, di gente indaffarata e di tram sferraglianti. Nel momento però che Otto sarà arrestato, Franz rimarrà solo e si troverà a gestire la tabaccheria, senza più né i consigli di Otto né quelli del Professor Freud emigrato prudentemente a Londra. Dopo un breve periodo Franz decide di tornare dalla madre al lago convincendo ad andare con lui anche Anezka, la ragazza boema di cui si era invaghito, che sbarcava il lunario più o meno recitando particine in locali un po’ equivoci.
La conclusione del film lascia quindi aperta la speranza che, almeno per le nuove generazioni, possa esserci un destino diverso ricco di amore e privo di razzismo.