Nessun essenzialismo, per carità, tuttavia persino i media mainstream, e non solo il femminismo radicale hanno notato la frequenza con cui, in questi mesi di pandemia (anzi sindemia, vedremo perché ), i discorsi più coinvolgenti e i risultati migliori contro il virus siano venuti da paesi governati da donne.
Nella vicina Germania, che pure vive un dramma quantitativamente molto minore degli altri Stati europei, a cominciare dal nostro, ha colpito l’intensità delle parole di Angela Merkel di fronte alle centinaia di vittime quotidiane.
Molto citata anche Jacinda Ardner, prima ministra neozelandese, e la sua immagine di un “team” che con lei comprende i 5 milioni di cittadini e cittadine, bambini compresi, del suo paese. Un’immagine ben diversa dalla “piramide” di un capo con due o tre ministri, 6 manager e 300 consulenti – la ipotetica “task force” per gestire i fondi europei – su cui si accapigliano Renzi e Conte, e vari altri maschi, seguiti da qualche donna, fornendo una scena desolante della politica nostrana.
È circolata in rete una immagine con l’elenco dei 7 paesi in cui le cose vanno peggio e degli altri 7 in cui vanno meglio (o meno peggio) con le foto dei rispettivi premier: tutti maschi i primi, tutte femmine le seconde. Certo, anche gli uomini, ha scritto Letizia Paolozzi su DeA: “Fanno bene e male, come tutte noi. Ma alcuni il potere non sanno proprio limitarlo o ne sono sedotti tanto da perdere la testa”.
Di potere e libertà, di come il desiderio e la depressione giochino nella ricerca di una nuova politica in questi mesi difficili si è discusso domenica alla Libreria delle donne di Milano. Per Ida Dominijanni il virus sta funzionando anche come “reagente chimico” per far risaltare i processi sociali e i mutamenti del pensiero. In crisi sarebbe quell’idea di “io” sovrano che nel neoliberismo si crede capace di tutto, libero da ogni vincolo, padrone di sé. L’esperienza della malattia capovolge questa immagine egemonica: ci scopriamo tutti vulnerabili. La libertà ci appare meglio come una dimensione relazionale. Qualcosa (ha detto Marco Cazzaniga) non che finisce quando incontra la libertà altrui, ma che proprio in quel momento può davvero cominciare.
Il nostro “io” è quindi un soggetto “alterato”. Si costruisce e si trasforma – anche traumaticamente – nel rapporto con altre e altri. Ecco che si presenta questa nuova parola: sindemia dal greco συν (insieme) e δήμος (popolo) per indicare che le patologie sono più di una, non solo di natura virale, ma anche sociale, culturale, economica. E politica. Non basteranno uno o più vaccini per affrontarle.
Una occasione per quella politica della relazione, del desiderio e della libertà di cui la libreria milanese è stato luogo di elaborazione?
Forse sì, ma non è e non sarà una cosa facile. Viviamo una condizione di mestizia, il desiderio – senza la cui spinta nulla si muove – appare in parte “inabissato”. Non sappiamo bene come elaborare il lutto delle morti quotidiane, come reagire alla violenza che questa situazione produce, come vivere facendo a meno della fisicità dei corpi.
Un’altra parola che circola molto è responsabilità. Necessaria per affrontare insieme, appunto, questo mondo imprevisto (anche se ripetutamente annunciato). Attenzione però all’insidia che nasconde: adeguarsi e sottomettersi alle norme che ci vengono dettate rinunciando a analizzarle criticamente, a reagire con la forza e l’intelligenza che servono.
Riguarda soprattutto noi uomini? Abituati a oscillare tra gli eccessi del potere, fino alla paranoia (vedi Trump), e l’illusione di risolvere tutto spaccando vetrine?