Di una cosa non dubito. È troppo tempo che, per un motivo o per l’altro, non convivo con un gatto. Ci pensavo giorni fa quando, al telefono con un amico, ascoltavo divertito, e invidioso, i suoi dialoghi risentiti col micio che gli mordeva insistentemente le caviglie.
In questa strana estate – in libertà vigilata dal virus che continua a impensierirci a ogni notiziario – non riusciamo a prenderci sul serio una vacanza. Cioè migrare, sia pure per breve tempo, nella dimensione di un altrove in cui qualcosa possa piacevolmente e intensamente sorprenderci.
Così ho pensato che ciò potrebbe accadermi se potessi mettermi in viaggio in compagnia di un gatto.
Sarà perché, avendo scoperto colpevolmente in tarda età la prosa meravigliosa di Hoffmann, mi consolo leggendone i fantastici racconti, le considerazioni appassionate sulla musica (sbircio anche gli spartiti delle sue sonate per pianoforte) e ricordando le avventure e le opinioni – lette l’estate scorsa, quando una vacanza era ancora possibile – del suo gatto Murr. Un tipetto di detestabile filisteo, ma irresistibilmente intrigante.
Condizione di nostalgia desiderante amplificata dalla constatazione che un altro scrittore amato – Giorgio Manganelli, nelle recensioni raccolte quest’anno in Concupiscenza libraria, Adelphi, a cura di Salvatore Silvano Nigro – non solo autorizza la mia mania letteraria senile definendo Hoffmann “uno dei più straordinari inventori di storie del romanticismo europeo”, ma parla dei gatti con una lingua che affascina e soggioga, introducendo note alla Gattomachia di Lope de Vega.
I gatti, premette, in fondo non esistono. “I gatti non sono gatti. Sono miniaturizzate figure mitologiche che entrano nelle nostre case, affollano le strade, qui a Roma alloggiano in mezzo alle rovine, affollano i vicoli della città vecchia. Già questo amore dei luoghi intimi o antichi, cioè più sottilmente umani, non può non insospettire: i gatti amano insieme la mollezza e la selvatica grazia dei luoghi affranti dal tempo; praticano i vizi colti della gola e del sonno, ma insieme sono eremitici, forastici, diffidenti, taciturni”.
Di conseguenza “l’uso che l’uomo fa del gatto è del tutto fantastico, e insieme devoto. Chi ha gatti cade in una forma di gattodipendenza che non conosce disintossicazione. L’uomo avverte la qualità mitica del gatto, e a questa oscuramente si rivolge, e ubbidisce alla qualità nobile, araldica di quell’essere dai grandi occhi fondi e senza sorriso”.
Ma non basta: tra umani e piccoli felini esiste un rapporto “misteriosamente binario”. Nell’atteggiamento del gatto c’è una assurda miscela tra “uno stile di possesso e di riti di sudditanza: ma una fondamentale distanza, una sorta di mimetica trascendenza, fa sì che la signoria sia meramente recitata, accade per disposizione dell’essere umano, non è imposta; e la sudditanza è un gioco infantile e forse un gesto di mera cortesia”.
In conclusione, poiché è chiaro che “l’uomo aspira a farsi gatto, si ha uno scambio di ruoli: e non è impossibile che gatti e uomini costituiscano ciascuno la mitologia dell’altro”.
Un’immagine mi ha molto colpito alla fine del lockdown: un quartetto d’archi esegue Puccini nel bellissimo Gran Teatre del Liceu di Barcellona per un pubblico composto da 2.292 piante, accomodate in platea e nei palchi. Un “omaggio alla natura” ideato da un artista, Eugenio Ampudia, forse interprete del senso di colpa umano di fronte alla pandemia. Mi sono chiesto: le piante avranno gradito Puccini? Erano d’accordo per quella comparsata?
Prima o poi andrò in vacanza con un gatto. Cercherò di capire se gradisce l’idea. O se accetta per cortesia.