Domenica il quotidiano Avvenire ha pubblicato come editoriale un commento del poeta Daniele Mencarelli, intitolato Dal dolore alla bellezza, nel quale si propone a chi governa – dallo Stato alle Regioni – di non dimenticare, nel frastuono delle divergenti previsioni scientifiche sul destino del virus, e nell’ancora più rumoroso contrapporsi politico sulle scelte da fare oggi, l’importanza della creazione artistica. Un evento traumatico come la pandemia, con i lutti che ha provocato, richiede una elaborazione sostenuta da riti individuali e collettivi condivisi, da segni estetici capaci di durare nel tempo, per rinnovarne, in modo non vuotamente retorico – aggiungo io – la memoria.
Mencarelli cita opere d’arte importanti nella storia del ‘900 come Guernica di Picasso, le invenzioni di Burri dopo il terremoto del Belice, le tante variazioni architettoniche legate al ricordo dei caduti nelle guerre.
“Alcuni – osserva poi – diranno che l’arte ha perso questo ruolo, che è divenuta categoria merceologica destinata alle élite, null’altro, ma ora più che mai se ne sente il bisogno. Perché soltanto l’arte possiede il dono della rievocazione, della materia che rende plastico, tangibile il ricordo, e tutti i sentimenti che vivono in esso”.
Mi sembra da condividere la richiesta alle istituzioni pubbliche di un indispensabile “mecenatismo” per sostenere obiettivi come questi. Credo che si possa immaginare e proporre anche di più. Vedo che si pensa a una “giornata della memoria” per ricordare le persone che per il Covid-19 hanno perso la vita, spesso senza nemmeno poter essere salutate con un rito funebre.
Per evitare, appunto, i rischi di retoriche vuote nella continua moltiplicazione di queste “giornate”, la ricorrenza potrebbe essere riempita di creatività artistica. Non solo raffigurazioni pittoriche, monumenti pubblici, segni architettonici, ma anche, se non soprattutto, produzioni musicali, e poetiche.
C’è una specie di eterno ritorno del mito, dell’utopia, assolutizzati dal romanticismo, della redenzione umana e di una condizione più felice e meno violenta, fatta di relazioni più ricche e aperte, grazie al ruolo dell’arte e della poesia.
Non è poi questa una delle non molte cose buone prodotte dalla cultura che abbiamo alle spalle?
Ancora meglio sarebbe se chi governa cogliesse questa difficile occasione per introdurre organicamente in ogni ordine di scuola lo studio e la pratica dell’arte e della musica come insegnamenti e apprendimenti centrali per la formazione della personalità.
Tempo fa ci fu una larga mobilitazione di energie intellettuali per non penalizzare – nella tormentata, per certi versi imperscrutabile vicenda della scuola italiana – lo studio della storia. Forse sarebbe il caso di tentare qualcosa di simile per un adeguato ruolo della formazione artistica e musicale: ecco un appello che forse sottoscriverei volentieri.
“Da parte dei politici e degli artisti – conclude Mencarelli – ci vuole grandezza (…) la grandezza di una visione da avverare. Attraverso lavoro e talento. Questo è accaduto per millenni nella storia. Questo, drammaticamente, non accade più (…) Generare nuova arte, fare delle tragedie, come questa pandemia, una bellezza da togliere il fiato ”.
Forse invece qualcosa di questo genere continua tuttavia a accadere, in forme nuove, impreviste e non ancora ben percepibili. Qualcosa che potrebbe tendere a quell’idea espressa una volta anche da Marx e Engels – in fondo, incorreggibili romantici pure loro – con il sogno di un mondo liberato dalla drastica divisione tra lavoro manuale e intellettuale, in cui ognuno possa provare a essere un po’ Shakespeare, un po’ Beethoven.