“Hollywood” è una recente miniserie TV di sette puntate, molto apprezzata da vari critici. Natalia Aspesi, ad esempio, ne è entusiasta e, il 30 aprile scorso, le ha dedicato un intero paginone de “La Repubblica”.
Questa miniserie è stata scritta da Ryan Murphy – già autore di altre serie televisive di successo come “The Politician”, “Pose” e “Glee” – e da Ian Brennan, ed è ambientata nel celebre quartiere cinematografico di Los Angeles negli anni successivi alla fine della Seconda Guerra mondiale, tra il 1946 e 1948. “Hollywood” può essere definita una dramedy, cioè una fiction che, in ambito televisivo, mescola elementi del dramma e della commedia. Potrebbe anche avere il sottotitolo “Come un gruppo di sfigati riesce a sfondare a Hollywood”. Infatti, narra le vicende di un gruppetto di aspiranti attori e registi che si arrabattano in attesa di raggiungere il successo, in quella oggi definita, Golden Age.
In Hollywood Boulevard, attorno a una stazione di servizio e al suo gestore con i baffetti alla Errol Flynn, girano vari aspiranti cineasti che, in attesa di trovare una parte nell’industria cinematografica, sbarcano il lunario come gigolò prestandosi quali intrattenitori di uomini e di donne – prevalentemente vecchie signore facoltose – accompagnandoli a Dreamland, il “luogo” della soddisfazione dei piaceri sessuali.
I primi episodi della serie, come da classica sceneggiatura, servono per presentare i vari personaggi con le proprie storie e le proprie disavventure. Quindi, si ritroveranno alla Gasoline Station per poi fare tutti insieme un percorso in comune e mettere in scena la storia di una attrice (Peg Entwistle) realmente accaduta.
Archie Coleman è un aspirante sceneggiatore nero e omosessuale che sogna di poter vedere realizzato un suo testo firmato (finalmente!) con il suo nome. Jack Castello è un reduce di guerra – «Ho combattuto ad Anzio» racconta – con la mogliettina cameriera incinta di due gemelli; un altro gay è un aspirante attore che prenderà il nome di Rock Hudson; Claire Wood è la figlia di produttore che vuole recitare con un altro nome. Camille Washington è una giovane e talentuosa attrice nera cui toccano sempre le parti di cameriera e che aspira a un ruolo di protagonista. Raymond Ainsley è un bravo regista di origini metà filippine alla sua opera prima; Henry Wilson è un talent agent ubriacone e perverso; Dick Samuels è un produttore represso, Ellen Kincaid una ex attrice che cerca di insegnare recitazione, Avis Amberg una moglie trascurata e tradita, e così via.
Il benzinaio (basato sulla reale figura di Scotty Bowers) a sua volta, pur campando facendo il ruffiano, in fondo è un filosofo e così afferma: «La vostra storia è importante. Dovete credere che lo sia. Lottate per raccontarla. Voi siete importanti. La vostra vita è importante. Uscite da casa e vivete la vostra vita a testa alta».
Questa miniserie è un omaggio a ciò che avviene nella trilogia di Quentin Tarantino: il cinema può far cambiare la storia. Modificando il finale degli eventi, in “Bastardi senza Gloria” (2009) gli ebrei si rifanno dei nazisti, in “Django Unchained” (2012) i neri dei bianchi e in “C’era una volta a… Hollywood” (2019) il satanico Charles Manson non uccide più Sharon Tate nella sua villa di Beverly Hill ma viene fermato, così da perdere ogni perverso fascino, ma che di affascinante non ha veramente nulla.
“Hollywood” rappresenta, a sua volta, una sorta di rivalsa per i “diversi” che siano donne, neri o omosessuali (ma gli ebrei Ryan Murphy li ha dimenticati?). Infatti, all’epoca vigeva il Production Code, un codice con una serie di linee guida morali che per molti decenni hanno governato e limitato le produzioni cinematografiche negli Stati Uniti. Specificava cosa non fosse “moralmente accettabile” all’interno di un film, incluse le perversioni sessuali (leggi omosessualità) e le relazioni interraziali. Meno di dieci anni prima il film “Via col vento” veniva premiato con dieci Oscar nel 1940, tra cui quello alla migliore attrice non protagonista a Hattie McDaniel, la Mamie di Rossella O’Hara, alla quale non era stato permesso di entrare in sala in quanto nera. Tale evento viene puntualmente ribadito nella miniserie, narrato dalla sua stessa interprete.
Nonostante i contenuti inusuali per l’epoca, “Hollywood” ha una struttura molto convenzionale e può ricordare molti altri film già visti, – tra cui ad esempio “Ave Cesare!” dei fratelli Coen del 2016 – è abbastanza divertente e sul finale diventa un rassicurante feel-good-movie.
In un’intervista a “Variety” Laura Harrier – l’aspirante attrice nera – così ha detto: «Adoro pensare a come sarebbe stato il mondo se fossimo stati in grado di rappresentare donne, persone di colore, persone della comunità LGBTQ all’inizio di Hollywood. In che modo i film e la TV sarebbero diversi? Come sarebbe diverso il mondo?».