Pubblicato sul manifesto il 19 novembre 2019 –
Che cosa possiamo veramente dire noi, noi che eravamo giovani nel ‘68, ma già impegnati politicamente, e che eravamo consapevoli e coinvolti nell’89, quando il capitalismo occidentale finì di vincere sul “socialismo reale” sovietico, alle generazioni che quei momenti non hanno vissuto direttamente, che magari non erano nemmeno nate alla fine del secolo scorso?
La domanda la riprendo dall’intervento di Ida Dominijanni che ha aperto venerdì scorso una giornata seminariale indetta dal Crs (Centro per la riforma dello Stato) sui 30 anni seguiti al “crollo”del muro. (Non tenterò nemmeno di fornire un resoconto: consiglio di ascoltare tutta la discussione già disponibile in audio sul sito del Crs : www.centroriformastato.it).
Risponderei in prima battuta che potremmo dire qualcosa di comprensibile se sapessimo comunicare l’ansia e il desiderio di libertà che ci ha diversamente e contraddittoriamente attraversato in quei momenti, pur così diversi. Scommettendo che questa ansia e questo desiderio possano essere qualcosa di profondo e sempre presente nell’animo e nel cervello di uomini e donne di generazioni anche molto distanti nel tempo e nelle fasi della storia. Naturalmente non comprendiamo bene che cos’è la libertà per le persone molto più giovani di noi, nemmeno se sono i nostri figli. Ma qualunque dialogo immagino sia impossibile se non si parte almeno da una sincera ricerca di verità, della nostra verità soggettiva.
E ciò mi porta a un altro spunto tratto da quella discussione, in questo caso dall’intervento di Mario Tronti. Che interrogandosi sulla vera natura dei paesi del “socialismo reale” è arrivato a dire che anche in quei regimi – si pensi alla delazione di Stato così pervasiva organizzata nella DDR (ne ha parlato in modo approfondito Paolo Soldini nel suo recente libro Quando il muro cadde anche in Italia, edizioni Striscia Rossa) – c’erano elementi non solo di autoritarismo, ma di totalitarismo, nel senso di un potere che non solo comprime diritti e libertà dei singoli, ma si impadronisce dell’intimo delle menti delle persone. Da qui è derivato un ragionamento sul nesso tra autoritarismo, autorità, libertà e democrazia. Per Tronti, se ho capito bene, una democrazia priva di autorità – cioè dì credibilità, di capacità di orientamento senza integralismi – può assecondare facilmente esiti totalitari. E questo sembra il passaggio che stiamo vivendo, accompagnato da quello che è stato definito un “guasto antropologico”.
Sarebbe quindi quasi preferibile un sistema “autoritario” se questo termine significasse il riconoscimento di autorità?
Credo che negli scivolamenti dei significati di queste parole stia effettivamente la radice della crisi della politica che stiamo drammaticamente vivendo. Ma la separazione tra i concetti e la realtà del potere e dell’autorità, che Tronti ha ascritto giustamente al pensiero delle donne – anzi, direi al pensiero del femminismo della differenza – a mio modo di vedere non può essere inscritto in qualche cosa che si modifica grazie all’invenzione di nuove norme: regole, leggi, istituzioni.
Queste potranno anche venire, ma solo se cambieranno i meccanismi di produzione di autorità, e di libertà, che sono radicati nelle relazioni e nelle culture che animano le nostre vite.
Se c’è davvero un “guasto antropologico” dobbiamo provare a nominarlo rintracciandolo nei linguaggi dominanti e nella nostra personale esperienza quotidiana. Da tempo penso che il “guasto” riguardi essenzialmente l’umanità maschile, e la cultura e civiltà che a prodotto, e che resiste ostinatamente a prendere atto che si tratta di un mondo ormai passato.