Pubblicato sul manifesto il 17 settembre 2019 –
“Non dispongo di una famiglia, e ne sento la mancanza. Non ho, ad esempio, una moglie indifesa da percuotere a sangue per motivi di minestra, e bambini da terrorizzare con mirabili malumori cosmici”. È l’attacco fulminante di un corsivo di Giorgio Manganelli sull’ Europeo del 21 settembre 1981, titolato Pensierini sull’amore domestico (ora in Mammifero italiano, Adelphi, 2007). Dunque in quei tempi remoti un maschio intelligente, in questo caso geniale, sapeva bene quanto “normale” fosse il tasso di violenza di mariti e padri tra le pareti di casa.
Che la violenza contro le donne non sia una “emergenza” (se non nel senso che finalmente “emerge” e non è più tollerata) ma una realtà “strutturale” delle relazioni tra i sessi è stato ripetuto venerdì scorso in un seminario organizzato dall’associazione “Olympia de Gouges”, un gruppo di donne, tra cui Costanza Ghezzi e Sabrina Gaglianone, che ne è presidente, da anni impegnate a combatterla.
Un primo centro antiviolenza è nato a Grosseto, per poi duplicarsi a Orbetello, ed estendersi ora con uno sportello a Borgo Carige, frazione di Capalbio. L’incontro è avvenuto qui, in un teatro affollato da operatrici, avvocate, e alcuni uomini, tra cui tre Carabinieri. Il titolo “Crimini contro le donne” evocava quello del libro del magistrato Fabio Roia (2017, Franco Angeli), il cui sottotitolo – Politiche, leggi, buone pratiche – rimanda alla storia di quanto è stato fatto per migliorare l’azione giudiziaria e la prevenzione. Ma anche alla storia personale e culturale di Roia, che era presente all’iniziativa e ha detto cose interessanti su molti aspetti e sulle ultime leggi approvate, come il cosiddetto “Codice rosso”.
A suo giudizio, al di là della retorica governativa e delle critiche severe mosse da associazioni femminili come DIRE (sulla norma che obbligherebbe il giudice a ascoltare la denunciante entro tre giorni, sull’assenza di finanziamenti e altro) il testo contiene novità positive. Per esempio il fatto che agire violenza in presenza di minori non è solo una aggravante ma un reato aggiuntivo, oppure la rigidità nel rapporto tra sospensione della pena e l’ingiunzione di percorsi riabilitativi per gli uomini che fanno violenza.
Questo, si è detto, pone naturalmente il problema di quali soggetti abbiano le competenze per prendere in carico questi uomini. In passato non sono mancate polemiche: non ci sono fondi per i centri antiviolenza delle donne e ora si finanziano quelli rivolti ai maschi? Al centro tornano sempre loro?
Ma non dovremmo proprio noi, che la violenza la esercitiamo, essere al centro dell’attenzione? E prima di tutto della nostra attenzione?
Ho citato anche un altro libro (Vive e libere. La violenza sulle donne raccontata dalle donne., San Paolo, 2019) scritto da Manuela Ulivi, attiva come femminista e come avvocata nella Casa delle donne maltrattate di Milano (e ricordo il ruolo dalla fondatrice Marisa Guarneri) e in DIRE. Scrive a un certo punto che “se una donna non si riconosce in una donna che ha subito violenza” non vede nemmeno il suo essere donna.
Penso che si possa capovolgere il concetto: se non ci riconosciamo come uomini nella violenza degli altri maschi non comprendiamo e non modifichiamo la cultura sbagliata che appartiene anche a noi.
Infine, ma è questione centrale, se è vero che il problema è “strutturale”, devono essere sostenute seriamente le “strutture”, a partire dai centri antiviolenza, che se ne fanno carico, e che vivono ancora in condizioni precarie, basati su un generoso volontariato.
La nuova ministra Elena Bonetti se ne occuperà?