Pubblicato sul manifesto il 10 settembre 2019 –
Come cittadino e come ex cronista mi accontenterei che questo governo pazzerello tenesse fede intanto a uno dei buoni propositi annunciati dal presidente del Consiglio, cito letteralmente: «…vogliamo volgerci alle spalle il frastuono di programmi inutili e dichiarazioni bellicose. Io e i miei Ministri prendiamo l’impegno a curare le parole, usare un lessico più consono e rispettoso delle persone, della diversità delle idee. Ci impegniamo a essere pazienti anche nel linguaggio, misurandolo sull’esigenza della comprensione; la lingua del governo sarà una lingua mite, perché siamo consapevoli che la forza della nostra azione non si misurerà con l’arroganza delle nostre parole».
Curare le parole, esprimersi con una lingua mite. Questo sì sarebbe un vero “cambiamento”, anzi una rivoluzione. La più importante. Penso – con altre autorevoli fonti – che non solo siamo “quello che mangiamo”, come esagerava un filosofo, ma soprattutto siamo quello che parliamo.
Purtroppo si tratta di una rivoluzione difficilissima sempre, e di più in questi tempi, quando l’illusione di poter dire di tutto a tutti con un tweet o un post dal nostro cellulare è una tentazione irresistibile, tanto più per chi esercita un po’ di potere.
Abbiamo saputo per prima cosa della nuova ministra dell’Interno che una sua dote promettente è non praticare i social. Un buon esempio così estremo non sarà certo seguito dal resto della compagine governativa. Non pochi nuovi ministri e ministre, non ancora avuta la fiducia delle Camere, già si sono buttati a dichiarare che cosa faranno e non faranno, permettendo ai media di speculare subito sulle divisioni che inevitabilmente faranno esplodere anche la maggioranza giallorossa.
Per realizzare almeno in parte l’ambiziosa promessa di Conte bisognerebbe inventarsi un metodo rigoroso. Ma come può essere praticabile, non dico il rigore, ma un po’ di decenza comunicativa da parte di un ceto politico che capovolge nello spazio di un mattino posizioni radicalmente contrastanti, senza avvertire il bisogno di riconoscere che, forse, nelle scelte abbandonate c’era qualcosa di sbagliato? Immaginate un Di Maio ammettere che non era il caso di allearsi con la Lega e di condividere scelte disumane verso persone salvate da un naufragio e in fuga dall’orrore? O un Renzi che finalmente si accorge di avere sbagliato tutto sulle riforme istituzionali (e non solo)? O un Salvini pentito delle smargiassate, degli insulti, delle citazioni fasciste, e della propria linea politica per il momento autolesionista?
Se le autocritiche – parola poco simpatica – sono impossibili si dovrebbe cercare un’altra strada verso la mitigazione del linguaggio e della spocchia. Suggerirei quella di riconoscere non i propri errori, ma almeno le cose giuste pensate o praticate da alleati, ex nemici, e persino dai nemici del momento.
Un esempio. Il Pd dovrebbe ammettere che la scelta dei grillini di autoridursi gli stipendi ricevuti in quanto eletti, investendo il ricavato in qualcosa di socialmente utile, è stato e resta un buon gesto. I grillini dovrebbero apprezzare qualche risultato del Pd in tema di diritti civili, compresa quella legge sullo “ius soli” di cui sembra persa la memoria… e così via.
Infine, buono anche il proposito di promuovere l’innovazione con annesso nuovo ministero. Cosa che potrebbe avere molto a che fare con la diffusione di un linguaggio fondato sulla conoscenza e la cura. Ma se sento evocare una “smart nation” mi viene subito il sospetto che dietro l’ammiccante inglese si nasconda un qualche imbroglio.