Secondo il segretario del Pd Bersani – questa la sua prima dichiarazione – la sinistra non ha vinto, ma non ha neanche perso. Frase abbastanza sconcertante nell’originale lessico bersaniano. Difficile, infatti, negare la vittoria della destra, che aumenta considerevolmente il numero delle Regioni e dei cittadini amministrati rispetto al 2005, e anche i voti. Tuttavia in quel paradosso esiste una qualche verità. (D’altra parte fior di filosofi e teologi ci insegnano che solo il paradosso ci rivela le verità più profonde, proprio perché intrinsecamente contraddittorie…).
Il fatto – come è stato ormai più volte notato da analisi e commenti apparsi sulla stampa e in tv – è che, se raffrontati ai più recenti dati delle elezioni politiche e delle europee, i risultati delle elezioni regionali, in termini di voti assoluti, ci parlano di vistose emorragie di voti sia a destra, sia a sinistra. Anzi, più a destra che a sinistra. Persino la Lega – la vera vincitrice della partita – perde qualcosa, anche se in alcune aree (Veneto, Emilia Romagna) conquista nuovi consensi.
C’è dunque un distacco generalizzato da questi partiti, che hanno sempre meno appeal.
Alcune rapide annotazioni.
Laddove la sinistra ha davvero vinto – direi in Liguria e in Puglia – servirebbero analisi un po’ più circostanziate. Vendola è un astro nascente, ma senza l’attenzione – anche da parte sua – al ruolo dei moderati e dell’Udc (che ha sostenuto Poli Bortone senza allearsi alla destra), difficilmente avrebbe vinto. Udc importante anche per la vittoria di Burlando, unica nel Nord assediato dalla Lega. Burlando però ha agito su più fronti: ha tenuto nella maggioranza anche le forze di sinistra, e nella sua lista è riuscito ad aprire sia a personalità deluse dalla destra, sia a esponenti della società civile, radicate nei quartieri popolari o impegnate nella tutela degli immigrati, che in parte rischiavano di confluire in una lista “grillina”.
Ma soprattutto il presidente ligure – personalità per certi versi opposta a quella di Vendola, con la sua quasi idiosincrasia per la politica mediatizzata, ma per certi altri versi simile, per radicamento e popolarità – a un certo punto si è accorto che non poteva più contare su una organizzazione di partito capace di canalizzare il consenso e esercitare efficacemente la mediazione sociale, come per tanti anni è stato in grado di fare il Pci e anche i suoi diversi eredi politici (almeno in Liguria). Quindi si è messo a “presidiare il territorio palmo a palmo” con la sua iniziativa personale e istituzionale, ascoltando e programmando interventi pubblici, e raccogliendo così una messe di consensi anche nelle aree dell’entroterra e dell’Imperiese tradizionalmente assai poco organiche alla sinistra.
La Lega ha una sorta di doppia faccia. Da un lato la presenza mediatica – per la verità assai ridotta – sui temi della sicurezza e sulle paure di ogni tipo. Slogan di fuoco contro i clandestini, le famiglie diverse da quelle “tradizionali”, ma anche contro la criminalità e la mafia. Dall’altro la presenza organizzata sul territorio, e una certa capacità di governo e di vicinanza a strati di lavoratori e piccoli imprenditori, artigiani, agricoltori, duramente colpiti dalla crisi.
C’è stato l’improvviso riflesso condizionato da parte di Cota e Zaia, sulla questione della pillola abortiva, in cerca di un consolidamento, cercato non da ora, di un rapporto forte con la Chiesa cattolica, nonostante le numerose polemiche sull’immigrazione. Non è un caso, credo, che l’azzardo sia abbastanza repentinamente rientrato, anche per l’intervento di Bossi. E che abbia suscitato significative reazioni da parte di numerose donne di destra – da Polverini a Prestigiacomo, alla direttrice del Secolo d’Italia Flavia Perina – e persino da varie leghiste.
Forse Bossi in fondo intuisce che una alleanza tra una destra sempre più misogina e le posizioni più ideologiche e conservatrici della gerarchia cattolica sarebbe un legame tra due debolezze.
La politica e la Chiesa vanno a tentoni rispetto al nodo sessualità-potere che sembra mantenersi una delle cifre di fondo di questo passaggio critico (ci insiste Ida Dominijanni sul “manifesto” di venerdì 2 aprile).
La destra intuisce a modo suo che viviamo in tempi in cui la forza e la libertà femminile non possono più essere rimosse. Allora, forse istintivamente, le nomina con il linguaggio, rassicurante per i maschi confusi e impauriti, della passione per la “gnocca” e dell’esaltazione della avvenenza, soprattutto se unita alla condiscendenza verso le leadership maschili, delle donne cooptate nella gestione del potere politico.
Una destra che – di fronte alla scarsità di elette nelle liste del Partito democratico – si permette su Libero la battutaccia: “Al Pd non piace la gnocca”. Difficile però non sorridere (almeno per un maschio?), e non meditare sulla incapacità perdurante delle forze di sinistra di valorizzare una diversa immagine femminile, e naturalmente una diversa immagine maschile, in grado di rispecchiare le cose che sono cambiate nella società, nei rapporti familiari e personali, nei luoghi di lavoro, dopo decenni di avanzata delle donne.
Ecco uno dei motivi, e forse non il minore, del perché la sinistra non aumenta consensi anche se ha di fronte il declino del berlusconismo.
Né riesce a imparare la lezione, nonostante duemila anni di sapienza, la gerarchia cattolica. Continua a urlare la difesa della vita – sgomenta di fronte alla possibile affermazione di Emma Bonino in quel di Roma – senza mostrare il necessario riguardo alla personalità della donna, mentre quel che resta della sua autorità rischia di essere travolta dagli scandali per la pedofilia dei sacerdoti, il tutto accompagnato da una incredibile serie di incidenti mediatici. Dunque anch’essa è incapace di sostenere una immagine diversa, adeguata ai tempi, del femminile e del maschile.
Il discorso pubblico assomiglia sempre di più a una gara di inadeguatezze. E i cittadini, preoccupati per la crisi e il lavoro che manca (soprattutto ai figli), si ritirano giustamente indispettiti. O votano per chi almeno si fa vedere e parla più chiaro.