Sui muri, già ampiamente graffitati, di una periferia romana sono apparse alcune scritte tratte da opere di Nanni Balestrini. Credo che lo avrebbe apprezzato. Una, molto rivoluzionaria, dice: “si può sentire lo strappo sonoro scorrere il sangue la nuova vita che arriva”, un’altra, forse ancora più rivoluzionaria, “supreme famose finzioni si dissolvono”. Tra parentesi è scritto il nome di Balestrini e poi, in corsivo “una lingua per l’antifascismo”.
Grazie all’amicizia con il figlio Uliano e con la mamma di Uliano, Letizia, ho potuto incontrare in diverse occasioni e conoscere un poco Balestrini. Anche a me ha colpito – è stato scritto nei ricordi della sua opera e della sua vita in questi giorni – il contrasto tra la radicalità di certi suoi pensieri e di certe affermazioni e la mitezza e leggerezza della sua persona, la bellezza aperta del suo volto.
Ho anche ammirato “da vicino” l’energia creativa con cui fino all’ultimo ha inventato progetti, coltivato relazioni, incoraggiato persone più giovani a agire e a esprimersi. A produrre e sollecitare letture critiche della realtà.
Da qualche parte a Genova conservo la raccolta cartacea della vecchia serie (dal ’79 all’88) di Alfabeta. Passato nei primi anni 70’ dagli estremismi post ‘68 alla scelta nel Pci e al lavoro all’Unità, le pagine di quella rivista tenevano aperta per me una indispensabile finestra sugli sviluppi di un pensiero critico che ai miei occhi rappresentava il meglio della stagione che ci lasciavamo alle spalle, quello anche piu attento a quanto di interessante si produceva nel mondo artistico, mediatico, filosofico e politico internazionale.
Alfabeta portava negli anni ‘80 del “riflusso” – immagine che non vedeva però il mutamento portato dalla rivoluzione delle donne (la vittoria nel referendum sull’aborto è dell’81) e tante altre cose – l’eredità di un desiderio dissidente (definizione di Elvio Fachinelli) cresciuto nei due decenni precedenti. C’è forse – malgrado lui?- un paradosso Balestrini. Il più ostinato poeta sovversivo ha promosso e garantito a modo suo una “tradizione”. E non ci può essere alcuna vera rivoluzione senza una qualche tradizione da elaborare, magari da tradire, ma senza rimozioni, senza furbizie ideologiche d’accatto.
Una “missione” che l’autore di Vogliamo tutto ha rilanciato nel pieno del nuovo millennio, inventandosi con chi lo seguiva – e lo segue – l’avventura di Alfabeta2. Rivista in parte cartacea, e più recentemente on-line, ma con esperimenti di relazioni non solo virtuali (con apposita associazione), e la produzione di volumi che per fortuna possono essere archiviati nelle nostre librerie e biblioteche.
Qualcosa di un po’ movimentistico e situazionistico che non rinuncia alla critica sistematica. Ma una critica del presente ricca di un rigore non improvvisato.
Come quello che si ritrova nel “racconto” di Balestrini pubblicato nel’ ultimo “Almanacco” di Alfabeta2, datato 2019 e dedicato alla cronaca dell’anno precedente. È intitolato Perché non ci fanno scendere? ed é un resoconto, con la tecnica e la poetica di un collage linguistico, del sequestro sulla nave Diciotti di 177 migranti da parte del ministro dell’Interno Salvini e del suo governo.
Spezzoni delle cronache giornalistiche giudiziarie e politiche si intrecciano senza punteggiatura e soluzioni di continuità – tranne alcuni spazi bianchi nel testo – con i racconti di terribili violenze subite e di grandi speranze sognate dagli uomini e le donne, spesso con i loro bambini, imbarcate su quella nave: il ministro “in un osceno mercato ha confuso una nave militare con una zattera di lebbrosi confondendo la cultura del governo con quella del comando”.
Un caro amico – Claudio Vedovati – su Facebook ha ricordato Balestrini dicendo che è tornato il momento di dire che cosa vogliamo.
Non so se sia il caso di rivolere tutto, certo vogliamo altro.