Pubblicato sul manifesto il 23 aprile 2019 –
La notizia della scomparsa di Massimo Bordin mi ha raggiunto mercoledì scorso – ormai siamo perennemente connessi – mentre uscivo dalla bella mostra romana su Demetrio Stratos, Cathy Berberian e Carmelo Bene, “Il corpo della voce” (al Palazzo delle Esposizioni, fino al 30 giugno: ne hanno parlato qui sul manifesto Guido Festinese e Stefano Crippa).
Non aggiungo altro a quanto di bene è stato detto di Massimo, della sua – e “nostra” – Radio Radicale, di un rapporto con la politica e il giornalismo fatto di passione critica, di cultura, di attenzione alle ragioni anche degli avversari più distanti, pur nel gusto della polemica accesa. Ma rifletterei un poco su come la fitta dolorosa di quella notizia si è aggiunta a una sensazione interrogativa di nostalgia per una stagione, tra gli anni ’60 e ’70, di ricerca e di creatività straordinaria. Ben riassunta dalle figure così diverse e tanto ricche di Stratos, Berberian e Bene. Artisti-autori che hanno messo in gioco una innovazione – vera, ben lontana dall’insignificanza attuale di questa parola-marketing – nella produzione musicale, teatrale e in senso profondo politica, coinvolgendo pienamente il corpo e affidando alla voce un messaggio di critica e di alternativa radicale “allo stato di cose presenti”.
In un certo senso il dolore per la perdita di una voce libera e colta che ci parlava ogni mattina, e che ci sembrava un’eccezione alla regola della banalità e volgarità del discorso pubblico, ha reso più acuto il sentimento di mancanza per un contesto culturale – le tre voci al centro della mostra romana, altri autori e intellettuali connessi alle loro opere: da Berio a Cage, a Eco – che in quegli anni vivevamo come la prova vivente del fatto che la battaglia per cambiare il mondo era davvero possibile, possibile perché già pensabile e dicibile, cantabile.
Quella stagione ci appare inesorabilmente conclusa. Per degli errori, eccessi, fraintendimenti che concettualmente conteneva? Ma allora quali? E poi siamo certi che qualcosa – poco, o tanto – di quella ricerca di avanguardia così radicale, ironica, pop, provocatoria e sovversiva, non sia rimasto, sedimentandosi in percorsi non ancora sufficientemente indagati, attivando sotterraneamente nuove tensioni di alternativa all’ordine-disordine esistente?
Lutto e nostalgia, determinati da eventi anche molto distanti nel tempo e nella fisionomia, possono essere stati d’animo e di pensiero produttivi, se spingono non al ripiegamento, ma alla sensibilizzazione dell’orecchio, dell’ascolto, dell’indagine, sulla irrimediabilità di una mancanza, sulla ricerca di altre presenze.
Mentre scrivo sento a tratti – su Radio Radicale – brani della registrazione di un incontro sul libro di Nadia Urbinati “Utopia Europa” (intervista all’autrice di Antonio Fico per Castelvecchi). Si parla della Cina, dell’America, del debole arroccarsi e dividersi del nostro continente e delle diverse ragioni del mondo: penso che ciò che abbiamo definitivamente alle spalle è il nesso tra l’utopia e l’idea che una sua, per quanto parziale, realizzazione sia da rintracciare in un “progetto” politico, in una costruzione sociale e statale, istituzionale. Era stato così nel secolo scorso per la Russia di Lenin (e di Stalin), o per la Cina di Mao. Come due secoli prima per la Francia dell’89.
Non credo alla forza, ora, di una “utopia europea”. L’Europa unita va difesa e migliorata. Ma l’energia utopica per cambiare le cose, se c’è, la cercherei nelle voci, parole, corpi, desideri di uomini e donne capaci di criticare e di insorgere, di cantare e di ascoltarsi.