Oggi “rubo” una parola alla rubrica “Abitare le parole” che ogni domenica tiene sul Sole 24 Ore il vescovo Nunzio Galantino. E’ stato segretario della Conferenza episcopale italiana e oggi si occupa dell’amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica, una responsabilità molto importante per la vita del Vaticano. Un uomo di grande cultura e sensibilità, di cui il papa Francesco si fida – credo – molto.
La parola, analizzata domenica scorsa, è confini. Termine che Galantino giudica paradossale, ambiguo e ricco, giacchè unendo le parole latine cum (con) e finis (fine) “indica insieme ciò che separa e ciò che unisce”. Se è utile per la nostra identità riconoscere i confini che la delimitano, è però indispensabile attraversarli se si vuole che questa identità non sia un luogo chiuso, una sorta di prigione, e viva invece per la relazione con l’alterità, con le persone, le cose, le culture che si trovano al di là del confine.
“Solo chi interiorizza questo dinamismo – scrive Galantino – e interpreta così il proprio essere uomo e donna di confine è in grado di pensare il mondo come luogo di relazioni, e la storia in termini di snodi piuttosto che come un insieme di nodi inestricabili”.
Anche su questo giornale, nell’edizione di domenica, è tornata la parola confini, nelle parole di un artista turco, Servet Kocyigit, che produce ricami e tessiture a uncinetto sulle carte geografiche, poi fotografate in diverse latitudini e situazioni umane e ambientali, per significare ciò che l’arida geometria delle cartografie rimuove: proprio la ricchezza delle diverse realtà umane. E’ anche una protesta contro il potere coloniale di cui spesso sono state e restano espressione le mappe geografiche che, dice l’artista, mai sono “basate su una relazione con gli individui”.
Questo tipo di discorsi sul significato dei confini mi sembra necessario nel momento in cui ci aggredisce la retorica della difesa dei “nostri” confini. Abbiamo un ministro degli Interni – la responsabilità di questa citazione è tutta mia – che sostiene di aver limitato la libertà di molte persone straniere (ma in territorio italiano e protette dalla nostra Costituzione) per questo patriottico motivo. Anche se non sarà processato per “sequestro di persona”, egli con il suo governo ha infranto un principio che dovrebbe essere ritenuto sacro: gli esseri umani devono essere sempre considerati come fini, mai come mezzi, oggetti da strumentalizzare per obiettivi di parte.
Ma non si può pretendere che Salvini abbia letto Kant (e forse nemmeno Di Maio o Toninelli: ma l’avvocato del popolo Conte?).
D’altra parte il ministro oltrepassa spudoratamente confini che in uno stato di diritto un uomo con le sue responsabilità istituzionali dovrebbe rispettare religiosamente. Visitare i carcerati è un atto giusto e umanissimo, ma quando questo gesto diventa una sorta di contro-sentenza di innocenza per un cittadino condannato con sentenza definitiva per tentato omicidio, siamo vicini a un atto di tipo eversivo. Bisogna ricordare che l’uomo difeso da Salvini ha sparato una fucilata in pieno petto a un altro uomo sorpreso a rubare carburante da un autoveicolo, dopo che il ladro era stato molto malmenato e immobilizzato da un dipendente dell’impresa del condannato. La perizia dice di un colpo sparato “da una persona in piedi verso una persona supina”, a distanza ravvicinata. Il ladro non è morto ma ha avuto i polmoni rovinati.
Sarebbe questo il concetto di “legittima difesa” che si vorrebbe affermare anche per legge. Ecco un confine etico e giuridico che non dovrebbe essere valicato in alcun modo.