Pubblicato sul manifesto il 22 gennaio 2019 –
Mariana Mazzucato, intervenendo nella querelle sulle élite, ha ricordato quei “milioni di donne e uomini, che non sono élite e a cui non interessa essere élite, che hanno lavorato e continuano a lavorare giorno dopo giorno nelle scuole e negli ospedali, combattendo con mezzi limitati contro le inerzie sfinenti dell’ignoranza e della malattia, contro l’ignavia dei colleghi scansafatiche e le furberie degli amorali, per far sì che quelle istituzioni collettive fossero bene comune e dispensassero il meglio per tutti”.
Venerdì scorso ho ascoltato una discussione nella sede della V municipalità di Napoli, al Vomero, su un tema assai poco “spettacolarizzato” : “Violenza sulle donne: la rete territoriale e la costruzione di percorsi integrati”, invitato da Anna Cigliano, del Coordinamento donne regionale delle Acli, che ha organizzato l’incontro (con Cinzia Del Giudice, Valentina Barberio, Giorgio Cinquegrana).
La psicologa Elvira Reale, insieme alla responsabile del servizio Fiorella Palladino, ha parlato di come il Pronto soccorso del Cardarelli abbia messo a punto nel tempo una particolare capacità di ascolto per le donne che subiscono violenza e si rivolgono a un ambiente sanitario così complesso, che deve dare risposte immediate ai traumi più diversi.
A me, profano, hanno colpito tre cose tra le tante: nel “percorso” sanitario che compie una donna che ha subito violenza viene sempre accompagnata dallo stesso infermiere (anche per evitarle di ripetere la sua storia), esistono “protocolli” e “linee guida” rigorosi, ma con la prontezza a “modificarli a seconda delle esperienze e delle esigenze del momento”. E ciò è possibile per la formazione – parola ripetuta quasi ossessivamente – che tutto il personale coinvolto segue costantemente connettendola alla propria esperienza.
Lidia Pastore, della Polizia di Stato, che si è subito definita “operativa”, ha insistito sulla gravità delle violenze psicologiche, spesso rimosse nella vita domestica, e difficilmente inquadrabili nelle “notizie di reato” la cui incertezza spesso motiva l’inerzia di magistrati e poliziotti, citando il “gaslighting”, strategia di colpevolizzazione dal titolo di una commedia del 1938: un marito adottava sadiche manipolazioni per far credere alla moglie di essere pazza (per esempio abbassando di nascosto la luce a gas – Gaslight – e chiedendone conto alla consorte).
La bussola è il fare rete, seguire formazione specifica, ascoltare e dare credito al racconto delle donne. Tra l’altro, a parte me, che portavo l’esperienza delle rete Maschile plurale, e un commissario di Polizia, erano tutte donne. Anche chi – come Gaia Cipollaro – ha raccontato il lavoro di un “centro di sostegno di uomini maltrattanti”: maschi per lo più indotti a fare qualcosa per liberarsi dalla violenza dopo l’aut-aut delle loro compagne. O cambi o me ne vado.
In pochi anni i casi seguiti in questo territorio, sono balzati da quelli contati sulle dita di una mano a alcune centinaia. Non perché le violenze siano esplose, ma perché le donne che vogliono reagire hanno trovato una sponda.
Dalle parole delle amministratrici comunali – Roberta Gaeta (servizi sociali) e Simona Marino (pari opportunità) – con la sensibilità e le buone intenzioni è venuta anche la denuncia delle difficoltà. Tante belle parole ma i finanziamenti nazionali sono pochi, e soprattutto sono incerti e a singhiozzo: i centri antiviolenza lavorano ancora “a progetto”, mentre dovrebbero essere considerati – pur con la loro autonoma valenza “politica” – parte essenziale di servizi essenziali.
Chissà se il “governo del cambiamento” è in grado di capirlo.