Pubblicato sul manifesto l’11 dicembre 2018 –
Quest’anno – momento di insicurezza, paura, aggressività, eventi tragici che ci scuotono (dal crollo del ponte di Genova alle vittime giovanissime della Lanterna azzurra) – la tradizionale analisi del Censis ha riscosso più attenzione del solito. Questo giornale non ha fatto eccezione, pubblicando analisi e commenti sul 52° Rapporto di Roberto Ciccarelli, Benedetto Vecchi, Luigi Pandolfi. E’ sembrata per lo più azzeccata non solo la considerazione di un diffuso e ormai incancrenito rancore che si trasforma in cattiveria, in caccia al capro espiatorio di turno (specialmente se nero e povero, diverso), ma anche l’idea di un “sovranismo psichico”: qualcosa che si è affacciato prima nella mente dei singoli abitanti del “Bel paese” e che ha provocato la risposta simmetrica dei populismi.
Una condizione individuale fatta di disagio, delusione, ansia, soldi risparmiati tranne che per cellulari e immediate soddisfazioni edonistiche, con l’illusione che vecchie ricette identitarie e un “ritorno” di protezione statale e nazionale possano risolvere il vuoto aperto da una dura e profonda crisi economica, che ci accompagna da dieci anni e non vuole lasciarci. Specularmente la risposta della politica premiata il 4 marzo scorso – con la convergenza di due partiti-movimento con molte anime opposte ma anche qualcosa di profondamente comune – appare già del tutto impotente a produrre il “cambiamento” annunciato.
Tutto vero. Le conclusioni ascoltate da Giorgio De Rita, che ha sostituito il padre Giuseppe alla guida del Censis, però mi hanno lasciato perplesso. C’è un bisogno di “profezia”, ha detto, di visione del futuro, e solo una rinnovata capacità analitica e politica da parte di contestatissime élites può forse aprire una svolta. C’è una contraddizione nel discorso del Censis: dati e analisi del presente parlano in modo netto della “chiusura di un ciclo”, dello spalancarsi di un territorio nuovo, col rischio di un “salto nel buio”. Tuttavia non manca la fiducia che l’eterna diversificata ricchezza molecolare del modello italiano possa offrire anche oggi una qualche prospettiva di salvezza, a saperla leggere.
Credo che un punto sottovalutato sia questo: se è vero che crisi e mutamento sociale sono stati profondi, e che hanno investito radicalmente non solo le condizioni materiali, ma anche quelle mentali, psicologiche, allora è possibile che dabbano mutare altrettanto profondamente gli strumenti analitici con cui si cerca di comprendere che cosa e come è cambiato.
Il vecchio De Rita, riassumendo mezzo secolo di ricerche del Censis, aveva ammesso una carenza di competenze adeguate, di natura antropologica per esempio, nello strumentario del suo istituto di fronte al presente. Ma il discorso potrebbe allargarsi. Gli attuali leader sembrano orientarsi solo sui sondaggi e sui meccanismi di andata e ritorno sui social. Domina ancora, nel migliore dei casi, uno sbilenco economicismo, condito di sociologismi effimeri.
Per comprendere cosa cambia nella testa degli italiani, e di ciascuno di noi, nei diversi contesti relazionali – individui sociali, mi verrebbe da dire – quindi misurare su dati più certi il “che fare” della politica, bisogna inventare un altro modo di coniugare cultura e prassi. Scomparsi gli “intellettuali organici”, fallite le visioni liberali e socialiste, bisognerebbe mettersi al lavoro per scegliere il meglio del pensiero filosofico e scientifico, coniugarlo con una intensa e paziente pratica politica di vicinanza e di cura rispetto alla vita quotidiana del “popolo”. Questa astrazione fatta di individue e individui avvolti nel mistero.