C’era una volta un simpatico musical western, americano naturalmente, Sette spose per sette fratelli. Il film che si sta rappresentando sulla scena del Pd me lo ha fatto venire in mente: qui si avanzano i sei fratelli (coltelli?) candidati alla nuova segreteria. Potrebbero diventare sette se “scendesse in campo” anche Maurizio Martina. Ma di “spose” se ne vedono pochine. Anzi per ora una sola: la giovane Katia Tarasconi che, subito battezzata “pasionaria” dai titolisti, lungi dal candidarsi lei medesima, ha chiesto a gran voce ai magnifici per ora sei di “fare un passo indietro se non vogliono celebrare la morte del Pd”.
Non sembra un discorso nuovissimo (fa pensare a un altro ormai vecchio film di discreto successo: Nanni Moretti che indicando i dirigenti del Pds – o erano già i Ds? – esclama: con questi non vinceremo mai!).
A Katia Tarasconi – lo ha dichiarato al Corriere della sera – non piace la parola rottamazione, anche se non rinnega la sua simpatia politica per il renzismo, soprattutto della prima ora. In seguito l’ex segretario del Pd avrebbe peccato di “un po’ di arroganza” ma il suo “errore più grave è stato quello di non ammettere gli errori”. Ma quali sono stati questi errori? Qui il ragionamento evapora un po’…
Ma il punto che vorrei segnalare – lo hanno fatto già altre e altri – è la significativa polarità, specularità, tra una politica che fatica a dare un’idea positiva e attraente di sé stessa (i sei o sette maschi in lizza nel Pd, i due vicepremier che si stuzzicano ogni santo giorno, con al centro l’”Avvocato del popolo”, e dietro una corte mediatica che non ci parla d’altro e un bel po’ ci annoia, e ai lati i ministri Tria e Moavero che si barcamenano con l’Europa, mentre in cima soffre e cerca di dare buoni consigli il presidente Mattarella) mentre le piazze si riempiono per conto loro di folle polemicamente vivaci in cui spicca la presenza femminile, anche sotto forma di nuovissime leadership. Vale per le manifestazioni di Torino e di Roma, ma anche per le tante iniziative contro il disegno di legge Pillon, e pure per molte reazioni contro il montante razzismo.
Da millenni, in realtà, esiste un separatismo maschile opaco a se stesso, che si addensa soprattutto nelle stanze del potere, e paradossalmente – come adesso – il pigia-pigia monosex sembra aumentare quando il potere è più impotente e meno autorevole.
Ho partecipato a un dibattito voluto dalle donne della Cgil del Lazio su “stereotipi e pregiudizi” intorno ai sessi, legato alla presentazione – in vista del congresso – di una “piattaforma di genere”. Sala piena, ma tutta femminile. Evidentemente ai dirigenti e ai delegati maschi non importa molto di conquistare modi di lavorare più attenti alla qualità della vita di tutte e tutti, con orari flessibili, parità di salari, congedi di paternità, welfare ecc?
Annarosa Buttarelli ha parlato di una ondata di “misoginia terminale”. Cioè di una reazione maschile “da ultima spiagga” di fronte all’avanzata e alla libertà delle donne (che sbaglierebbero, secondo lei, a sentirsi sconfitte).
Io ho suggerito una modesta proposta. Visto che i maschi frequentano solo le riunioni che ritengono “importanti”, convochiamone una “importantissima”, esplicitamente rivolta ai soli uomini. In cui provare a parlare non come segretari di qualcosa o esponenti di una categoria o di una corrente sindacale, ma come maschi che si accorgono di esserlo. E vediamo l’effetto che fa.
Salterà su qualcuno a dire: ma volete scopiazzare l’autocoscienza femminista!… Perché no? Ascoltiamo il compagno Timmermans: “se non siamo femministi non siamo di sinistra”.