Pubblicato sul manifesto il 21 agosto 2018
La tragedia che ha colpito Genova mi ha tolto le parole. Ho molto letto e ascoltato. Ora ci torno, nella mia città, per scambiare sentimenti, impressioni, domande. Per riconnettermi agli anni in cui ho seguito come cronista la grande crisi industriale, e poi nel quindicennio 2001-2015 la vicenda genovese e ligure dall’interno del governo locale di centrosinistra. Un bilancio da tentare, che mi riguarda.
Ma la prima cosa che ho pensato, dopo lo sgomento per la notizia e le immagini, è che quel crollo, con i lutti che ha provocato, è una crudele rivincita della materialità delle cose sulla vacuità di molte parole sulla potenza delle tecnologie, e sulla possibilità facile (“onestà, onestà!”) di “cambiare” la politica.
Quante volte ho percorso quel lungo, inquietante ponte, scherzando: “ora viene giù”. Si scherzava per rimuovere la paura, ma soprattutto perché quella catastrofe non pareva realmente possibile. Era arcinota e visibile la malattia del gigante, del “mostro”. Ma, proprio per questo, come credere che tecnici, ingegneri, amministratori, non fossero in grado di scongiurare una sciagura di tali dimensioni?
Quindi è assolutamente comprensibile il furore di chi chiede di accertare le responsabilità, di punire i “colpevoli”. E il rifiuto delle famiglie delle vittime che hanno disertato i funerali di Stato.
Giustizia va fatta.
Ma non sopporto la gara tra chi ha o ha avuto responsabilità politiche a emettere sentenze immediate e senza appello. La “colpa” é di chi si è opposto alla “gronda”! No, é di chi ha favorito i privati! É dei Benetton, dei capi e dei funzionari di Autostrade!
Certo, i primi “indiziati” sono coloro che avevano in gestione il ponte. Tuttavia è facile risalire anche a chi l’ha progettato e l’ha costruito, ai controlli e agli interventi insufficienti nel corso di decenni. Lo scambio di accuse tra le forze politiche (ce n’é per tutti: i grillini sempre contro ogni infrastruttura, la Lega con Berlusconi quando si sono fatti i maggiori regali ai Benetton, la sinistra che ha governato a lungo Genova e la Liguria) dovrebbe almeno indurre – di fronte ai morti e a un disastro che rischia di mettere in ginocchio la città e il primo porto italiano – a una riflessione seria su nodi essenziali di ciò che definiamo politica.
Norma Rangeri, su queste pagine, ha visto nell’immagine del colosso di cemento “appoggiato” alle case la metafora di un enorme fallimento politico e sociale. Persino Ernesto Galli della Loggia ha scritto di un disastroso abbandono del ruolo dello Stato nel controllo e nella gestione delle cose di interesse pubblico. Giusto.
Va però ricordato che lo Stato italiano, nei decenni del dopoguerra in cui gestiva la ricostruzione del paese, nella stessa area in cui realizzava l’opera dell’ingegner Morandi, finiva di sbancare un’intera collina per realizzare l’enorme riempimento a mare su cui sorse l’Italsider, un altro “mostro” inquinante costruito anch’esso a ridosso delle case di Cornigliano. Erano tempi in cui lo “sviluppo” industriale era ragione e religione dominante. E sarebbe istruttiva una storia dei “cambiamenti” rivendicati e faticosamente realizzati dopo gli anni ‘80 proprio in questa parte della città.
Il “ritorno” a un forte ruolo pubblico credo che possa aiutarci solo se sostenuto da una nuova cultura della cura e del conflitto capace di migliorare radicalmente il modo in cui leggiamo la complessità (capitalistica) delle cose e la fondatezza delle parole che usiamo per provare a cambiarle. Dei metodi democratici e delle conoscenze tecniche e scientifiche di cui disponiamo per decidere.