Il testo su cui, come Gruppo del Mercoledì, abbiamo convocato questo incontro è stato efficacemente presentato da Letizia Paolozzi che ci ha posto una domanda sulla nostra idea di società e su come agire per contrastare attivamente il sessismo e il razzismo che ci circondano, non solo o non soltanto, attraverso le manifestazioni.
Una domanda che considero fondamentale.
Dopo il femminicidio di Milano e i fatti di Macerata, la nostra lettura di un innegabile continuum tra l’origine delle varie forme di violenza e una mascolinità incapace di accettare l’altro da sé, la sua fisicità, la sua volontà, non sembra affatto azzardata, ma certamente richiede una riflessione ulteriore.
Come altre ho rimpianto di non essere a Macerata, ma poi mi sono convinta che proprio appuntamenti come questo servono a costruire senso e prospettiva al nostro agire. Non sempre questo riesce a emergere dalle manifestazioni, soprattutto quando non sono convocate autonomamente.
Non si può, infatti, fare a meno di notare come negli Stati uniti le azioni delle donne abbiano guadagnato una centralità con la rivolta del #MeToo, che, se pure con molte differenze, si è imposta con un protagonismo degno del neo-femminismo degli anni settanta. Ne vedremo gli esiti e il prosieguo, ma l’esplosione che ha prodotto nel discorso pubblico è già un fatto politicamente rilevante.
Un riconoscimento che, invece, fatica ad affermarsi da noi, nonostante il lavoro di NonUna DiMeno, il lancio della campagna #WeToogether, lo sciopero dell’8 marzo e la recente presa di posizione delle donne dello spettacolo e delle giornaliste con il testo “Dissenso Comune”. Il movimento femminista, da noi, soprattutto negli ultimi anni ha saputo essere interprete di un malessere collettivo, e continua a farlo con molta coerenza, ma non è stato ancora preso sul serio dal mondo della comunicazione e della politica.
Questo indubbiamente interroga e rimanda a una lettura del nostro recente passato che, forse troppo velocemente, ha visto sorgere e scomparire lo sdegno femminista contro l’epoca di Berlusconi e delle olgettine.
L’interesse a fare del binomio “sessualità e potere” un modo per conoscere la società e non solo una leva per rovesciare il dominio maschile è stato ben presto accantonato, proprio da quelli e quelle che l’avevano alimentato, come se si trattasse di materiale troppo pericoloso da maneggiare. Una volta ottenuto lo scopo, si è cercato di tornare nei ranghi di un discorso limitato alle “pari opportunità” e a qualche lobby.
Quello che costituiva un punto di vista critico necessario per ricostruire una connessione sociale tra le nuove soggettività e le nuove sofferenze che la globalizzazione e la sua crisi avevano prodotto nel nostro paese, non è stato capito ed è stato usato furbescamente solo contro Berlusconi. Tutto questo lo ha spiegato molto bene Ida Dominijanni nel suo testo del 2012 “Lo Specchio, sessualità e biopolitica nell’epoca di Berlusconi”.
Torno dunque al nostro testo, alla domanda di Letizia, all’obiezione avanzata poc’anzi da Ida Dominijanni sul fatto che “prendersi cura è già politica” e al suo bisogno di distruggere quello che impedisce l’affermazione della forza delle donne nello scenario, complesso e nuovo, con cui ci confrontiamo.
Sarebbe inutile negare che la violenza oggi si rappresenta in forme così estreme e eccedenti da rendere auspicabile l’esercizio di una forza “negativa” di contrasto. Anche se i dati a livello globale ci dicono che ci sono meno guerre e meno uccisioni di cinquanta anni fa, la disumanità delle guerre e dell’odio contro i migranti o la crudeltà insensata dei femminicidi, sembrano mettere a nudo l’impotenza degli inermi e rischiano di trasformare le proteste di chi le avversa in una gara tra chi rappresenta più “vittime”.
Tacere, tuttavia, così come reagire in modo speculare, sarebbe consegnarsi alla complicità con chi fa dell’odio e del dominio basato sulla forza la propria ragione di esistenza.
Il nostro “prendersi cura è già politica” intende proprio spezzare questa deriva. E’ la rivendicazione di un agire politico che possa entrare in gioco in tutte le relazioni, anche conflittuali, sia negli spazi privati che nella politica. Da molto tempo abbiamo proposto il “paradigma della cura” come un rovesciamento dei modi e delle forme del pensare e del vivere. Non il lavoro di cura, ma la possibilità di uscire da posizioni che accrescono il disagio della convivenza.
In un contesto altamente competitivo in cui il “mors tua vita mea” è divenuto una regola “esistenziale”, anzi un obbligo quotidiano, sembra non esserci spazio per un’assunzione di responsabilità che non si trasformi in presunzione di potenza o martirio, ma possa creare uno spazio comune per incrociare esperienze e punti di visione.
In questo senso la cura diventa un modo della politica che deve, però, fare i conti con le difficoltà di chi pratica un femminismo non rivendicativo, messo ai margini da un circuito mediatico che non cerca risposte ai problemi, ma rassicuranti polarizzazioni alla ricerca del vincente.
Trovare le forme e i modi per affrontare il problema della ricostruzione di un linguaggio che esca dalle polarizzazioni e favorisca il dialogo è una forma di resistenza allo spirito dei tempi e al dilagare delle varie forme di violenza.