di Monica Luongo
L’articolo è stato pubblicato sul blog www.olimpiabineschi.it
“Qual è la prima cosa?” – chiede Hannibal Lecter/Anthony Hopkins alla detective Clarice Sterling/Jodie Foster in una scena chiave de Il silenzio degli innocenti – “La prima cosa è desiderare”.
Già, il desiderio. Pulsione primaria, non solo sessuale, raffinata elaborazione del nostro immaginario; quella stessa pulsione che cerca i propri simili.
Pulsioni di rabbia, come quelle degli uomini che usano violenza sulle donne. Pulsioni di donne che vorrebbero vivere la propria vita sentimentale e sessuale esprimendone liberamente il desiderio. Pulsioni di potere, che non sono solo appalto maschile, se solo potessero estrinsecarsi.
Immaginate se Harvey Weinstein un giorno a casa sua si fosse trovato davanti una giovane donna che voleva diventare attrice. L’ingresso ha un suo prezzo, quello di soddisfare i desideri di un satiro, appunto. Ma cosa, se all’improvviso quella stessa ragazza apparentemente e fisicamente inferiore avesse avuto il potere di stendere Weinstein con una scarica elettrica che emana dal proprio corpo? E’ quello che si chiede e prefigura Naomi Alderman nel romanzo Ragazze elettriche (Nottetempo, 2017). Benedetta da Margaret Atwood – che considera sua mentore – la scrittrice immagina un futuro in cui l’evoluzionismo ha finalmente regalato alle donne una modificazione genetica che le rende capaci di produrre scariche elettriche. Inizialmente posseduta dalle adolescenti viene creduta una misteriosa patologia, fino a quando le ragazze non riescono a risvegliarla anche nelle adulte. Il passo per rivoltare il mondo non è poi così lungo: è il potere. Sette religiose femminili, culti che adorano dee in tutto il mondo. Ora il potere è femminile dunque. Cosa ci rende differenti dagli uomini si chiede l’autrice, adesso che le donne comandano? Poco, secondo il suo immaginario. Il potere sporca tutto: insieme alle donne vittime che cercano la loro vendetta tra torture e mutilazioni maschili ci sono trafficanti di droga, seguaci di sette che venerano la sorellanza e il matriarcato. E’ un passato vecchio di cinquemila anni, quello voluto da Naomi Alderman, che ci riporta al presente nel prologo e nell’epilogo del romanzo: il carteggio tra un giovane scrittore – quello che ha appunto lavorato al romanzo e la sua editor, che ritiene l’opera un po’ troppo “audace” per essere scritta da un uomo, tanto da raccomandargli di usare uno pseudonimo femminile…
Già il potere. Quello di Alderman che si interroga su cosa potrebbe accadere se i ruoli (se il mondo) fossero rovesciati e se il potere non fosse qualcosa che sporca tutto e dunque anche le donne, e quello di Spike Lee, pioniere delle tendenze del mondo occidentale, non solo americano. Il regista di Lola Darling, resuscita la sua protagonista in una serie tv scritta e diretta da lui, She’s gotta have it (Netflix), in cui Lola diventa Dola, una giovane donna nera di New York che vuole mantenere relazioni aperte con tre uomini. Cosa non facile: i tre sono consapevoli delle esistenze reciproche, sono protettivi nel più tradizionale dei modi, litigano per una supremazia nel cuore di Dola (che nella vita fa la pittrice) e in qualche modo provano invano a controllarla. La quotidianità di Dola (molestata per strada, oppure attenta a cogliere le reazioni intorno a lei quando indossa un sexy abito nero, o anche mentre cerca di spiegare alle sue amiche perché tre uomini, ma anche perché no?) vista dalla camera di Spike Lee mostra una donna che deve ancora motivare il perché delle sue scelte, e che dunque per affermare la sua individualità deve in qualche modo esercitare un potere, quello della libertà, forse tra tutti il più difficile. Dola vuole esprimersi per quello che è: intelligente, creativa, sexy, seduttrice o sottomessa. Tutto insieme: e perché no?
Infine P!nk, che chiude l’anno in bellezza con il bellissimo album Beautiful trauma e con il video che porta il nome dell’album (https://www.youtube.com/watch?v=EBt_88nxG4c), secondo a nostro parere solo ai video dell’album Lemonade di Beyoncé. La musicista, che ha deciso insieme a suo marito di non attribuire alcun genere ai suoi figli per lasciarli liberi di scegliere le proprie identità, si muove in una scenografia americana degli anni Cinquanta, in una casa di raso dai colori pastelli, dove i letti sono separati e marito e moglie vestono mascherine per gli occhi. Al risveglio cinguettano felici, mentre la clip proietta realtà e sogni di ognuno: lei prende pillole antidepressive, lui si traveste da donna e lei da uomo; eri il mio sogno, sei il mio livello più basso, cantano insieme, il mio beautiful trauma. Un ossimoro che non si fatica a ritrovare nell’oggi, con colori diversi dagli anni Cinquanta. Le relazioni eterosessuali sono mutate e forse non ce ne siamo accorti* come dovremmo: possiamo vivere col cambiamento di desideri, trasgressioni, identità nuove e contesti in continua trasformazione se ne riconosciamo con onestà le dinamiche e proviamo a ricucire linguaggi: il trauma, appunto, potrebbe trasformarsi anche in meraviglia.