di Monica Luongo
“Libere tutte” verrà presentato per la seconda volta a Roma il 18 maggio, da Tuba in via del Pigneto.
Il soggetto imprevisto della modernità politica occidentale. E’ in questo modo che Cecilia D’Elia e Giorgia Serughetti definiscono le donne dell’oggi in “Libere tutte. Dall’aborto al velo, donne del nuovo millennio” (minimum fax, 2017): termine che non mi dispiace e che estenderei alle donne tutte, non solo le occidentali. Al centro di un mutamento che ha pochi precedenti nella storia moderna e contemporanea e che solo in parte può definito, perché in piena e costante evoluzione, modulato da variabili economiche, sociopolitiche, religiose, etiche.
D’Elia e Serughetti scelgono di compiere un excursus che fa il punto delle libertà femminili, scegliendo argomenti caldi e di pubblico interesse: il metodo riporta casi vecchi e nuovi, internazionali e nostrani, riflettendo a partire dalle legislazioni che normano il corpo femminile e le libertà di scelta delle donne in Italia; libertà riflesse nelle molteplici voci del dibattito femminista. Siamo diversi, eppure siamo uguali agli altri, dice Nanni Moretti nel film “Palombella rossa”: se accogliamo come vera questa definizione e la decliniamo al femminile, ciò appare specchio concreto di un mondo che con pessimismo potrebbe essere definito spaccato, frammentato e allo stesso tempo, con un po’ di ottimismo, vario, multiforme, resiliente.
E’ caro alle autrici il concetto di agency, mutuato dai feminist postcolonial studies e riferito alla capacità femminile pressoché continua di rinegoziare con i poteri maschili. Peculiarità che indica, nel caso del volume, come la lettura di un fenomeno debba tenere conto delle caratteristiche del soggetto e sempre più anche del contesto in cui questa/o si trova (cultura, costumi, economie e altre contingenze). Così è per la storia del diritto all’aborto, le maternità surrogate, le relazioni di coppia, la famiglia eterosessuale, la violenza contro le donne, la prostituzione e il sex working.
Per ognuno di questi temi, leggere la storia di come sono nate e sono state modificate nel tempo le leggi, offre una specie di sottotesto su cui riflettere e interpretare. E’ pur vero – ad esempio a proposito dell’interruzione di gravidanza – che il contesto in cui si muove l’obiezione di coscienza si fa forte di “una rappresentazione della maternità in cui il corpo femminile scompare e la maternità deflagra. Il feto appare sempre più autonomo in un processo che vede i diversi momenti separarsi. Ovulazione, concepimento, gestazione, allattamento, maternage: sappiamo che questi compiti potrebbero essere svolti da figure diverse, e, come vedremo, questo cambia l’orizzonte in cui tutte e tutti oggi ci muoviamo”. Allo stesso tempo il dibattito e lo scontro su come normare l’accesso alle tecniche di riproduzione assistita, le madri surrogate, lo stepchild, sembrano non ammettere da parte del legislatore che i compiti appena citati possono essere non-monadici, quanto piuttosto specchio di una minacciosa insistenza a riportare alla “unicità” del corpo femminile, alla sua funzione ancillare riproduttrice (non a caso le autrici citano “Il racconto dell’ancella” di Margaret Atwood).
Prendere posizione non è mai facile, perché è di corpi che appunto si parla ed è insita nel corso della storia (ancora di più dopo l’affermazione dei femminismi) la difficoltà di mettere paletti e confini alle storia delle e dei singoli individui. Soggetti politicamente imprevisti appunto: il mutamento della relazione tra sessi, la crisi della famiglia così come essa è stata concepita fino a non tanto tempo fa, l’emersione della violenza maschile contro le donne, offrono allo sguardo un panorama caleidoscopico sì, ma di sicuro non più silente e nascosto. Che si legga delle ragazze nigeriane rapite da Book Haram, o che del velo parli la giornalista e intellettuale egiziana Mona Heltahawy, le posizioni del pensiero femminista si differenziano e moltiplicano. E si mostrano con una evidenza pubblica rinnovata, resa stringente e necessaria da una quotidianità in cui non solo i diritti individuali, ma anche la sicurezza degli stati, il bisogno di tutelare i diritti di migranti e rifugiati, di garantire l’accesso al lavoro – dove i luoghi una volta “collettivo di lavoratori” sono sempre più raramente ospiti di pensiero ed elaborazione politica -. Ritrovarsi allora in piazza da Roma a Washington, dal Venezuela alla Polonia per dire i molti no che come donne vogliamo affermare seppure in modalità differenti, va ben al di là delle differenti posizioni all’interno dei femminismi e manifesta una urgenza di cambiamento che tiene insieme molte anime.
Possiamo dunque dirci libere o più libere, si chiedono allora le autrici (quesito che attraversa il volume, che io ho apprezzato maggiormente nei capitoli dedicati a prostituzione, sex working, tratta)? Il concetto di “dominio di sé” non è più sufficiente a contenere ciò che le donne possono dire di se stesse e del proprio corpo, così come non si può più affermare che esiste solo una subalternità al potere patriarcale che mostra i colpi di coda. E’ piuttosto cruciale osservare “dove in realtà possono essere messe in atto anche pratiche di negoziazione con quest’ordine”, perché è questo il senso della politica oggi, l’opzione terza che chi lavora nella negoziazione dei conflitti sa bene essere l’unica strada che porta a risoluzioni positive, cammini di libertà, riappropriazione di corpi e spazi autodeterminati.